serracchianiLa rete è vissuta con un atteggiamento ambivalente: da un lato, con la golosità di chi intuisce indefinite possibilità per le proprie esigenze e ambizioni di comunicazione, dall'altro, col timore di scendere in un'arena in cui non si controllano le regole del gioco e, anzi, si è esposti ad un fluttuare delle opinioni che non si ferma neanche all'insulto.
Vorrei svolgere le mie considerazioni partendo da un fatto quotidiano e da un fenomeno mediatico. Il primo è una vicenda accaduta in un centro della provincia di Barletta Andria Trani, dove un 18enne è stato accoltellato da un coetaneo perché aveva contattato la sua ex su Facebook. Il secondo, un po’ più complesso da riassumere, ma penso lo meriti. Si tratta di quello che è stato definito il “primo gioco italiano di collaborazione urbana”. Lanciato nel 2008 da un giovane di 29 anni, Criticalcity.org consiste in una rete virtuale di giocatori che si sfidano in missioni da compiere nella vita reale.
Lo scopo di queste missioni è dare un volto nuovo alle città, attraverso azioni programmate e decise dagli stessi partecipanti, come, ad esempio, fare qualcosa per rendere più pulita la propria città, esplorare un edificio abbandonato o altre missioni dal contenuto più ludico. Criticalcity è interessante, non solo perché esemplifica bene come sfruttare le potenzialità collaborative del web 2.0, ma anche perché ha trovato imprenditori disponibili a investirci dei capitali. Credo che l’accostamento dei due casi, l’accoltellamento e Criticalcity, possa aiutarci a capire cosa intendiamo quando parliamo di uno strumento di cui ci sfuggono ancora molti risvolti, in primo luogo le modalità dell’interazione e la qualità del coinvolgimento personale. Il fatto, probabilmente, è che stiamo ancora sperimentando. Non siamo ancora completamente immersi nell’era digitale.
O, meglio, non lo siamo noi che tentiamo di darci delle risposte, laddove la fruizione completa si avrà con l'ingresso nella vita professionale dei "figli dell'era digitale", come ipotizza la recentissima relazione della Commissione europea sulla competitività digitale. Da quella relazione, apprendiamo anche che un terzo dei cittadini dell'UE non ha mai utilizzato Internet e che, in Italia, la diffusione di Internet a banda larga nelle famiglie è del 31%, contro il 74% di Danimarca e Olanda, che sono al primo posto. Preoccupanti sono i dati nazionali sull’eGovernment, con solo l’8% della popolazione che ne usa i servizi. Qualunque riflessione voglia porre a tema “politica e web”, sono convinta, dovrebbe passare preliminarmente al vaglio di un dubbio metodico sulla natura del mezzo, i rapporti di causa-effetto che è in grado di innescare, la sua distribuzione correlata all’incidenza. Forse dipende da ciò, da un’oggettiva difficoltà a collocarla nel reale, quella certa diffidenza che la politica italiana nutre nei confronti di internet. Perché non c’è dubbio che la rete sia vissuta con un atteggiamento ambivalente: da un lato, con la golosità di chi intuisce indefinite possibilità per le proprie esigenze e ambizioni di comunicazione, dall’altro, col timore di scendere in un’arena in cui non si controllano le regole del gioco e, anzi, si è esposti ad un fluttuare delle opinioni che non si ferma neanche all’insulto. Penso sia d’obbligo rimanere fermi al monito che ci ricorda di non continuare a confondere mezzo e messaggio e smettere di voler giudicare gli strumenti prima di provare ad usarli. È un argomento che si è presentato anche nel corso del dibattito congressuale del Partito democratico, quello della contrapposizione tra la politica che si fa sul web e nei blog rispetto a quella che si fa, come è stato detto, “guardandosi negli occhi”.
A questo proposito, da un lato mi sento senz’altro di sottoscrivere quanto ha detto Giuseppe Civati, secondo il quale la contrapposizione tra politica sul web e politica tradizionale è un falso problema, dal momento che «bisogna portare fuori dal web le cose politiche, fare in modo che una mobilitazione su Internet possa diventare una occasione di confronto nella società». Un invito che ci riporta in modo stimolante alle sperimentazioni di Criticalcity, ma anche, più drammaticamente, alle proteste convocate da twitter nelle piazze dell’Iran. Dall’altro lato, credo che la politica dovrebbe guardare al web ed interrogarsi seriamente sulle sue specificità e sulle sue modalità, evitando di applicarvi categorie estranee all’universo digitale. Se fosse lecito e opportuno trarre insegnamenti dalle esperienze passate, mi sentirei di ipotizzare come più probabile che la rete modifichi la politica, prima che la politica riesca a far proprie la cultura e l’apertura che le permetterebbero di usare al meglio la rete. Ciò, naturalmente, se lo spazio della rete sarà preservato da intromissioni e manipolazioni indebite, cui può essere tentato chi vede in internet una minaccia superiore alle attese di beneficio. E quanto di incontrollabile si muove nella rete, ovviamente con tutte le scorie che l‘accompagnano, rappresenta un’entità potenzialmente inquietante e dall’aria vagamente sovversiva.
L’argomento dei contenuti deleteri da bloccare diventa quindi ottimo per mettere le mani sul canale che li veicola, come ci potrebbero spiegare i navigatori cinesi del web, che nel 2005 hanno visto rifiutarsi sul portale “Msn” della Microsoft parole come «democrazia», «diritti umani» e «libertà», e a cui anche recentemente sono stati oscurati i siti d’informazione che riportavano notizie sulla rivolta in Tibet. In Italia, un progetto di legge dell’on. Vincenzo Vita, presentato a luglio di quest’anno, va proprio nella direzione di garantire la neutralità e la libertà della rete, fondandosi sul principio in base al quale i fornitori di connettività e gli altri operatori della rete devono provvedere a trasportare le comunicazioni degli utenti senza sottoporle a filtraggio.È del 26 marzo scorso l’approvazione a larghissima maggioranza, da parte del Parlamento europeo, della relazione che chiede di lottare con determinazione contro i crimini commessi su e tramite Internet, senza però compromettere la libertà di espressione e la privacy, anzi, sottolineando che il diritto che gli Stati membri si arrogano di intercettare e controllare il traffico su Internet «non può essere giustificato dalla lotta al crimine». Sono tuttavia gli Stati Uniti il Paese che continua a rappresentare, ora più che mai, un avamposto per la comunità digitale, così come per quella off-line. Il presidente Obama, appena insediato, ha illustrato la sua agenda sulla scienza e tecnologia partendo dal presupposto che occorre “garantire il pieno e libero scambio delle idee attraverso un’Internet libera e il ricorso diversificato ai vari mezzi di comunicazione”. Lo stacco, anche stilistico, dell’asserzione non può che indurci a riflettere.
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Vorrei svolgere le mie considerazioni partendo da un fatto quotidiano e da un fenomeno mediatico. Il primo è una vicenda accaduta in un centro della provincia di Barletta Andria Trani, dove un 18enne è stato accoltellato da un coetaneo perché aveva contattato la sua ex su Facebook. Il secondo, un po’ più complesso da riassumere, ma penso lo meriti. Si tratta di quello che è stato definito il “primo gioco italiano di collaborazione urbana”. Lanciato nel 2008 da un giovane di 29 anni, Criticalcity.org consiste in una rete virtuale di giocatori che si sfidano in missioni da compiere nella vita reale.
Lo scopo di queste missioni è dare un volto nuovo alle città, attraverso azioni programmate e decise dagli stessi partecipanti, come, ad esempio, fare qualcosa per rendere più pulita la propria città, esplorare un edificio abbandonato o altre missioni dal contenuto più ludico. Criticalcity è interessante, non solo perché esemplifica bene come sfruttare le potenzialità collaborative del web 2.0, ma anche perché ha trovato imprenditori disponibili a investirci dei capitali. Credo che l’accostamento dei due casi, l’accoltellamento e Criticalcity, possa aiutarci a capire cosa intendiamo quando parliamo di uno strumento di cui ci sfuggono ancora molti risvolti, in primo luogo le modalità dell’interazione e la qualità del coinvolgimento personale. Il fatto, probabilmente, è che stiamo ancora sperimentando. Non siamo ancora completamente immersi nell’era digitale.
O, meglio, non lo siamo noi che tentiamo di darci delle risposte, laddove la fruizione completa si avrà con l'ingresso nella vita professionale dei "figli dell'era digitale", come ipotizza la recentissima relazione della Commissione europea sulla competitività digitale. Da quella relazione, apprendiamo anche che un terzo dei cittadini dell'UE non ha mai utilizzato Internet e che, in Italia, la diffusione di Internet a banda larga nelle famiglie è del 31%, contro il 74% di Danimarca e Olanda, che sono al primo posto. Preoccupanti sono i dati nazionali sull’eGovernment, con solo l’8% della popolazione che ne usa i servizi. Qualunque riflessione voglia porre a tema “politica e web”, sono convinta, dovrebbe passare preliminarmente al vaglio di un dubbio metodico sulla natura del mezzo, i rapporti di causa-effetto che è in grado di innescare, la sua distribuzione correlata all’incidenza. Forse dipende da ciò, da un’oggettiva difficoltà a collocarla nel reale, quella certa diffidenza che la politica italiana nutre nei confronti di internet. Perché non c’è dubbio che la rete sia vissuta con un atteggiamento ambivalente: da un lato, con la golosità di chi intuisce indefinite possibilità per le proprie esigenze e ambizioni di comunicazione, dall’altro, col timore di scendere in un’arena in cui non si controllano le regole del gioco e, anzi, si è esposti ad un fluttuare delle opinioni che non si ferma neanche all’insulto. Penso sia d’obbligo rimanere fermi al monito che ci ricorda di non continuare a confondere mezzo e messaggio e smettere di voler giudicare gli strumenti prima di provare ad usarli. È un argomento che si è presentato anche nel corso del dibattito congressuale del Partito democratico, quello della contrapposizione tra la politica che si fa sul web e nei blog rispetto a quella che si fa, come è stato detto, “guardandosi negli occhi”.
A questo proposito, da un lato mi sento senz’altro di sottoscrivere quanto ha detto Giuseppe Civati, secondo il quale la contrapposizione tra politica sul web e politica tradizionale è un falso problema, dal momento che «bisogna portare fuori dal web le cose politiche, fare in modo che una mobilitazione su Internet possa diventare una occasione di confronto nella società». Un invito che ci riporta in modo stimolante alle sperimentazioni di Criticalcity, ma anche, più drammaticamente, alle proteste convocate da twitter nelle piazze dell’Iran. Dall’altro lato, credo che la politica dovrebbe guardare al web ed interrogarsi seriamente sulle sue specificità e sulle sue modalità, evitando di applicarvi categorie estranee all’universo digitale. Se fosse lecito e opportuno trarre insegnamenti dalle esperienze passate, mi sentirei di ipotizzare come più probabile che la rete modifichi la politica, prima che la politica riesca a far proprie la cultura e l’apertura che le permetterebbero di usare al meglio la rete. Ciò, naturalmente, se lo spazio della rete sarà preservato da intromissioni e manipolazioni indebite, cui può essere tentato chi vede in internet una minaccia superiore alle attese di beneficio. E quanto di incontrollabile si muove nella rete, ovviamente con tutte le scorie che l‘accompagnano, rappresenta un’entità potenzialmente inquietante e dall’aria vagamente sovversiva.
L’argomento dei contenuti deleteri da bloccare diventa quindi ottimo per mettere le mani sul canale che li veicola, come ci potrebbero spiegare i navigatori cinesi del web, che nel 2005 hanno visto rifiutarsi sul portale “Msn” della Microsoft parole come «democrazia», «diritti umani» e «libertà», e a cui anche recentemente sono stati oscurati i siti d’informazione che riportavano notizie sulla rivolta in Tibet. In Italia, un progetto di legge dell’on. Vincenzo Vita, presentato a luglio di quest’anno, va proprio nella direzione di garantire la neutralità e la libertà della rete, fondandosi sul principio in base al quale i fornitori di connettività e gli altri operatori della rete devono provvedere a trasportare le comunicazioni degli utenti senza sottoporle a filtraggio.È del 26 marzo scorso l’approvazione a larghissima maggioranza, da parte del Parlamento europeo, della relazione che chiede di lottare con determinazione contro i crimini commessi su e tramite Internet, senza però compromettere la libertà di espressione e la privacy, anzi, sottolineando che il diritto che gli Stati membri si arrogano di intercettare e controllare il traffico su Internet «non può essere giustificato dalla lotta al crimine». Sono tuttavia gli Stati Uniti il Paese che continua a rappresentare, ora più che mai, un avamposto per la comunità digitale, così come per quella off-line. Il presidente Obama, appena insediato, ha illustrato la sua agenda sulla scienza e tecnologia partendo dal presupposto che occorre “garantire il pieno e libero scambio delle idee attraverso un’Internet libera e il ricorso diversificato ai vari mezzi di comunicazione”. Lo stacco, anche stilistico, dell’asserzione non può che indurci a riflettere.
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