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Il lavoro a progetto è stato introdotto nel nostro ordinamento attraverso il Decreto Legislativo 276/03, la cosiddetta “legge Biagi”.
Scopo essenziale della legge era dare trasparenza ai rapporti di lavoro diversi da quello classico e tradizionale a tempo indeterminato.
Sulla materia vi è stato recentemente un provvedimento da parte del Tribunale del lavoro di Reggio Calabria, Giudice unico Dott.ssa Patrizia Morabito.
La vicenda posta all’attenzione del Tribunale ha riguardato il tecnico informatico E. T. che, assunto da una società che aveva in appalto e/o in subappalto la manutenzione delle reti informatiche del Ministero della Giustizia, ha prestato attività lavorativa continuativamente per 6 anni con contratti a progetto reiterati per ben dieci volte.
E. T., licenziato per “fine progetto”, promuoveva attraverso i propri legali, Avv.ti Antonino Triolo del Foro di Locri e Roberto Fiorino del Foro di Reggio Calabria, un procedimento ex articolo 700 cpc davanti al Tribunale del lavoro per ottenere la dichiarazione di nullità del recesso datoriale dal contratto a progetto nonché il riconoscimento dell’attività lavorativa dipendente e l’immediata reintegra.
Il Tribunale riconosceva l’illegittimità dei contratti a progetto ed accoglieva l’istanza del lavoratore.
Nell’ordinanza vengono affermati importanti principi:
Tali principi sono stati abbondantemente confermati dal Tribunale del lavoro in composizione collegiale, Presidente il dottor Natalino Sapone, Giudice relatore il dottor Arturo D’ingianna e Componente dott.ssa Eliana Romeo, che ha rigettato il reclamo proposto dalla società datoriale confermando integralmente l’ordinanza della dott.ssa Morabito e condannando altresì ulteriormente la stessa parte datoriale non solo alla immediata reintegra ma anche alla refusione delle spese di lite.
La vicenda lavorativa di E. T. non è altro che la punta di un iceberg su come molte imprese aggirino le leggi vigenti in materia di mercato del lavoro, visto che il fenomeno del precariato istituzionalizzato riguarda tantissimi giovani e meno giovani lavoratori in tutta Italia.
Quello che non è accettabile è che tali forme di lavoro al di fuori delle regole legali siano rinvenibili anche nell’ambito degli appalti e subappalti della Pubblica Amministrazione, così come è avvenuto, e non si esclude che continui ad avvenire, nell’ambito della manutenzione delle reti informatiche del Ministero della Giustizia (in altri casi, i contratti a progetto sono addirittura in numero superiore a 10!), che appalta l’assistenza tecnica unificata in tutti i suoi uffici centrali e periferici (Corte d’Appello, Tribunali, Procure, Giudici di Pace, etc.).
Gli organi preposti della Pubblica Amministrazione e del Ministero della Giustizia, per non incentivare il ricorso continuo e sistematico al lavoro precario, divenuto oramai prassi diffusa, dovrebbero vigilare sulla regolarità lavorativa e contributiva dei dipendenti che prestano attività nelle aziende appaltatrici ed eventualmente revocare gli stessi appalti alle aziende che ricorrono al precariato per realizzare profitti a danno dei lavoratori e del paese.
Sarebbe anche auspicabile che lo stesso Ministero della Giustizia imponesse alle aziende subentranti negli appalti la continuità dei lavoratori dipendenti dalle ditte appaltatrici, non solo per dare certezze ai dipendenti stessi ma anche per non disperdere tanta professionalità acquisita nel corso degli anni.
Reggio Calabria, 06/11/2009
Avv. Antonio Triolo
Cell. 3471979031
antonino_triolo@tin.it
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Il lavoro a progetto è stato introdotto nel nostro ordinamento attraverso il Decreto Legislativo 276/03, la cosiddetta “legge Biagi”.
Scopo essenziale della legge era dare trasparenza ai rapporti di lavoro diversi da quello classico e tradizionale a tempo indeterminato.
Sulla materia vi è stato recentemente un provvedimento da parte del Tribunale del lavoro di Reggio Calabria, Giudice unico Dott.ssa Patrizia Morabito.
La vicenda posta all’attenzione del Tribunale ha riguardato il tecnico informatico E. T. che, assunto da una società che aveva in appalto e/o in subappalto la manutenzione delle reti informatiche del Ministero della Giustizia, ha prestato attività lavorativa continuativamente per 6 anni con contratti a progetto reiterati per ben dieci volte.
E. T., licenziato per “fine progetto”, promuoveva attraverso i propri legali, Avv.ti Antonino Triolo del Foro di Locri e Roberto Fiorino del Foro di Reggio Calabria, un procedimento ex articolo 700 cpc davanti al Tribunale del lavoro per ottenere la dichiarazione di nullità del recesso datoriale dal contratto a progetto nonché il riconoscimento dell’attività lavorativa dipendente e l’immediata reintegra.
Il Tribunale riconosceva l’illegittimità dei contratti a progetto ed accoglieva l’istanza del lavoratore.
Nell’ordinanza vengono affermati importanti principi:
- che le forme di coordinamento del lavoratore a progetto da parte del committente non possono pregiudicare l’autonomia nella esecuzione dell’obbligazione dello stesso lavoratore a progetto;
- che il progetto non può essere indicato in maniera generica e non può identificarsi con la prestazione di assistenza informatica oggetto dell’appalto;
- che non può ripetersi in ogni contratto, se stipulati in modo consequenziale, lo stesso identico progetto;
- che l’attività a progetto non può essere circolare e periodica e che non può ripetersi all’infinito.
Tali principi sono stati abbondantemente confermati dal Tribunale del lavoro in composizione collegiale, Presidente il dottor Natalino Sapone, Giudice relatore il dottor Arturo D’ingianna e Componente dott.ssa Eliana Romeo, che ha rigettato il reclamo proposto dalla società datoriale confermando integralmente l’ordinanza della dott.ssa Morabito e condannando altresì ulteriormente la stessa parte datoriale non solo alla immediata reintegra ma anche alla refusione delle spese di lite.
La vicenda lavorativa di E. T. non è altro che la punta di un iceberg su come molte imprese aggirino le leggi vigenti in materia di mercato del lavoro, visto che il fenomeno del precariato istituzionalizzato riguarda tantissimi giovani e meno giovani lavoratori in tutta Italia.
Quello che non è accettabile è che tali forme di lavoro al di fuori delle regole legali siano rinvenibili anche nell’ambito degli appalti e subappalti della Pubblica Amministrazione, così come è avvenuto, e non si esclude che continui ad avvenire, nell’ambito della manutenzione delle reti informatiche del Ministero della Giustizia (in altri casi, i contratti a progetto sono addirittura in numero superiore a 10!), che appalta l’assistenza tecnica unificata in tutti i suoi uffici centrali e periferici (Corte d’Appello, Tribunali, Procure, Giudici di Pace, etc.).
Gli organi preposti della Pubblica Amministrazione e del Ministero della Giustizia, per non incentivare il ricorso continuo e sistematico al lavoro precario, divenuto oramai prassi diffusa, dovrebbero vigilare sulla regolarità lavorativa e contributiva dei dipendenti che prestano attività nelle aziende appaltatrici ed eventualmente revocare gli stessi appalti alle aziende che ricorrono al precariato per realizzare profitti a danno dei lavoratori e del paese.
Sarebbe anche auspicabile che lo stesso Ministero della Giustizia imponesse alle aziende subentranti negli appalti la continuità dei lavoratori dipendenti dalle ditte appaltatrici, non solo per dare certezze ai dipendenti stessi ma anche per non disperdere tanta professionalità acquisita nel corso degli anni.
Reggio Calabria, 06/11/2009
Avv. Antonio Triolo
Cell. 3471979031
antonino_triolo@tin.it
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