Cinque comuni sciolti per infiltrazione mafiosa e un centinaio di relazioni pericolose. È la fotografia dei contatti tra ‘ndrangheta e politica nel nord Italia scattata dalle più importanti inchieste antimafia degli ultimi quattro anni. Un quadro inquietante, sicuramente incompleto, che descrive il tentativo dei clan di influenzare la vita amministrativa di comuni, province e regioni anche nel profondo nord del Paese. Le indagini realizzate dal 2009 al 2013 indicano che il 20 per cento dei cittadini di Piemonte, Liguria e Lombardia, ossia 1 su 5, è stato amministrato o rappresentato da almeno un politico accusato di affiliazione o concorso esterno in associazione mafiosa. Circa 75mila abitanti del nord-ovest dal 2011 vivono in un comune sciolto per mafia. E in questo quadro la provincia di Milano, con quella di Torino e Genova, risulta l’area in cui più forte è il tentativo di condizionamento dei risultati elettorali,
Spulciando i documenti dell’antimafia e tenendo conto solo di politici in carica e candidati – e non di uomini di partito o funzionari, che pure figurano – si ricava un elenco di almeno 74 casi di avvicinamento tra rappresentanti delle istituzioni e criminalità calabrese (grande protagonista, pochissime volte affiancata o sostituita da Cosa nostra). La stragrande maggioranza dei casi non contiene alcun reato, e in ogni caso tutte le persone citate sono da intendersi innocenti fino all’ultimo grado di giudizio. Ma gli episodi tutti insieme tracciano una prima mappa inedita dell’assalto dei clan alla politica del Nord Italia. Emergono le scelte degli uomini legati alla malavita e quella rete di “relazioni esterne” dell’organizzazione criminale che, anche quando non ha rilevanza penale, contribuisce a fare della mafia un sistema di potere e non un semplice gruppo armato.
Sulla base delle informazioni fornite dai magistrati, i rapporti individuati possono essere classificati in cinque tipi per livello di coinvolgimento, a prescindere dal loro profilo penale che, lo ribadiamo, resta perlopiù irrilevante (o, in alcuni casi, ancora da provare definitivamente in tribunale). Si passa dal semplice contatto (30 per cento degli episodi), cene, pranzi e appuntamenti in cui gli uomini dei clan tentano un primo abboccamento, al sostegno elettorale (43 per cento), che rappresenta il tipo di rapporto maggiormente rilevato e nasce talvolta da una scelta spontanea dei malavitosi (una decisione in ogni caso mai gratuita, almeno nelle intenzioni), per arrivare agli episodi in cui più chiaramente emerge una prospettiva di accordo tra le parti (16 per cento). A questi si sommano infine gli episodi in cui, secondo gli inquirenti, politici e amministratori si relazionano agli uomini di mafia sapendo bene con chi hanno a che fare: 5 casi di presunta affiliazione e 3 di concorso esterno in associazione mafiosa.
Le inchieste rivelano che il sostegno elettorale è il motivo di contatto più frequente tra cosche e classi dirigenti, così come lo scambio tra voti e appalti è la base di ogni scioglimento comunale per mafia. I voti sono una merce molto richiesta, la buccia di banana su cui rischiano di scivolare anche i politici più scafati. Passa tutto da lì: è il peccato originale che i clan sfruttano per ricavare beni e favori all’organizzazione criminale. In questo contesto i comuni sciolti per infiltrazioni mafiosa, Bordighera (il cui commissariamento è stato successivamente annullato), Ventimiglia, Leinì, Rivarolo e Sedriano, raccontano solo una parte della storia.
Guardando ai rapporti tra politica e mafia ogni territorio, comune, collegio o circoscrizione elettorale del nord Italia diventa lo specchio del potere conquistato dai clan. L’area di elezione di politici e amministratori costituisce infatti lo spazio su cui si misura la capacità mafiosa di penetrare le istituzioni, condizionare un territorio e la sua vita democratica. La dimensione della sua scalata al potere.
In questa classifica alla città di Milano tocca il valore massimo, con 11 episodi segnalati. E i numeri peggiorano quando gli episodi si sovrappongono sullo stesso territorio. La cifra che ne risulta (indicata nella mappa con una diversa gradazione di colore) è ben più grave e colloca, ad esempio, il capoluogo lombardo in vetta alle posizioni con 18 casi complessivi.
Nelle intercettazioni e nei documenti ufficiali (i dati sono aggiornati al 31 dicembre 2013), la stragrande maggioranza dei politici si mostra inconsapevole, distratta, responsabile tutt’al più di una caccia al consenso che conduce talvolta a pericolosi incontri ravvicinati. E infatti tutti i politici si dichiarano estranei a qualsiasi coinvolgimento o responsabilità. Le relazioni con uomini legati ai clan nascono spesso in un’area grigia popolata da colletti bianchi, affaristi e fiancheggiatori di ogni sorta, in cui si stringono molte mani e non sempre è facile capire chi si ha di fronte. Capita, poche volte per la verità, che i politici vengano addirittura scelti a loro insaputa, sostenuti dai “calabresi” per giochi di sponda o di interessi incrociati, quando collettori di voti – luogotenenti dei boss, uomini di partito, affaristi e persino genitori o parenti – intercettano per i candidati inconsapevoli i consensi della rete criminale (è il caso, ad esempio, del sindaco di Torino Piero Fassino o delle giovani Fortunata Moio e Teresa Costantino).
Accando a questi episodi emergono però anche abboccamenti diretti e più compromettenti. Richieste di voto avanzate senza fare troppe domande. In questi casi i politici coinvolti non possono negare di aver chiesto quei voti, ma giurano di non aver minimamente sospettato della qualità criminale dei loro interlocutori, in alcuni casi ancora da provare in tribunale. Sono gli episodi in cui, come scrivono i magistrati della procura di Milano “non sempre è l’appartenente alla mafia che si infiltra nella società civile” ma “esponenti di istituzioni, della società civile o delle professioni ricercano il rapporto con la mafia”. A questi fatti si sommano poi alcuni casi limite, una decina in tutto, in cui lo scambio, secondo gli inquirenti, avviene nella piena ed esplicita consapevolezza dei ruoli.
È sconcertante vedere quanto in alto riescano a salire gli uomini legati alla criminalità calabrese, nei loro rapporti, prima che scatti un qualche campanello d’allarme. Come un sasso tirato nello stagno, i rapporti tra mafia e politica disegnano centri concentrici che si propagano da alcuni punti nevralgici verso l’esterno. Più rapidi a diffondersi sono trovano interlocutori disponibili, più radi dove i servizi mafiosi non hanno mercato. Dal punto di vista della collocazione politica il partito di gran lunga più avvicinato è il Pdl, con 40 episodi, coincidenti ad oltre la metà dei casi totali, per il resto quasi equamente distribuiti tra Pd, Udc, Idv, liste civiche e altri partiti. Mentre sono tutte di centro-destra le amministrazioni dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa.
I comuni commissariati per mafia sono tutti medio-piccoli, ma il dato non deve trarre in inganno. I tentativi di contatto riguardano infatti anche consiglieri e amministratori provinciali, regionali, nazionali e persino un parlamentare europeo. Se negli ultimi 4 anni i boss calabresi hanno contattato, sostenuto o fatto accordi con 10 sindaci, 6 assessori e 22 consiglieri comunali (guardando ai soli candidati eletti), i rapporti che superano la soglia comunale rappresentano nel complesso circa il 40 per cento del totale, con 12 avvicinamenti di consiglieri o assessori regionali e 6 di politici con cariche provinciali.
Fonte Il fattoquotidiano.it
Spulciando i documenti dell’antimafia e tenendo conto solo di politici in carica e candidati – e non di uomini di partito o funzionari, che pure figurano – si ricava un elenco di almeno 74 casi di avvicinamento tra rappresentanti delle istituzioni e criminalità calabrese (grande protagonista, pochissime volte affiancata o sostituita da Cosa nostra). La stragrande maggioranza dei casi non contiene alcun reato, e in ogni caso tutte le persone citate sono da intendersi innocenti fino all’ultimo grado di giudizio. Ma gli episodi tutti insieme tracciano una prima mappa inedita dell’assalto dei clan alla politica del Nord Italia. Emergono le scelte degli uomini legati alla malavita e quella rete di “relazioni esterne” dell’organizzazione criminale che, anche quando non ha rilevanza penale, contribuisce a fare della mafia un sistema di potere e non un semplice gruppo armato.
Sulla base delle informazioni fornite dai magistrati, i rapporti individuati possono essere classificati in cinque tipi per livello di coinvolgimento, a prescindere dal loro profilo penale che, lo ribadiamo, resta perlopiù irrilevante (o, in alcuni casi, ancora da provare definitivamente in tribunale). Si passa dal semplice contatto (30 per cento degli episodi), cene, pranzi e appuntamenti in cui gli uomini dei clan tentano un primo abboccamento, al sostegno elettorale (43 per cento), che rappresenta il tipo di rapporto maggiormente rilevato e nasce talvolta da una scelta spontanea dei malavitosi (una decisione in ogni caso mai gratuita, almeno nelle intenzioni), per arrivare agli episodi in cui più chiaramente emerge una prospettiva di accordo tra le parti (16 per cento). A questi si sommano infine gli episodi in cui, secondo gli inquirenti, politici e amministratori si relazionano agli uomini di mafia sapendo bene con chi hanno a che fare: 5 casi di presunta affiliazione e 3 di concorso esterno in associazione mafiosa.
Le inchieste rivelano che il sostegno elettorale è il motivo di contatto più frequente tra cosche e classi dirigenti, così come lo scambio tra voti e appalti è la base di ogni scioglimento comunale per mafia. I voti sono una merce molto richiesta, la buccia di banana su cui rischiano di scivolare anche i politici più scafati. Passa tutto da lì: è il peccato originale che i clan sfruttano per ricavare beni e favori all’organizzazione criminale. In questo contesto i comuni sciolti per infiltrazioni mafiosa, Bordighera (il cui commissariamento è stato successivamente annullato), Ventimiglia, Leinì, Rivarolo e Sedriano, raccontano solo una parte della storia.
Guardando ai rapporti tra politica e mafia ogni territorio, comune, collegio o circoscrizione elettorale del nord Italia diventa lo specchio del potere conquistato dai clan. L’area di elezione di politici e amministratori costituisce infatti lo spazio su cui si misura la capacità mafiosa di penetrare le istituzioni, condizionare un territorio e la sua vita democratica. La dimensione della sua scalata al potere.
In questa classifica alla città di Milano tocca il valore massimo, con 11 episodi segnalati. E i numeri peggiorano quando gli episodi si sovrappongono sullo stesso territorio. La cifra che ne risulta (indicata nella mappa con una diversa gradazione di colore) è ben più grave e colloca, ad esempio, il capoluogo lombardo in vetta alle posizioni con 18 casi complessivi.
Nelle intercettazioni e nei documenti ufficiali (i dati sono aggiornati al 31 dicembre 2013), la stragrande maggioranza dei politici si mostra inconsapevole, distratta, responsabile tutt’al più di una caccia al consenso che conduce talvolta a pericolosi incontri ravvicinati. E infatti tutti i politici si dichiarano estranei a qualsiasi coinvolgimento o responsabilità. Le relazioni con uomini legati ai clan nascono spesso in un’area grigia popolata da colletti bianchi, affaristi e fiancheggiatori di ogni sorta, in cui si stringono molte mani e non sempre è facile capire chi si ha di fronte. Capita, poche volte per la verità, che i politici vengano addirittura scelti a loro insaputa, sostenuti dai “calabresi” per giochi di sponda o di interessi incrociati, quando collettori di voti – luogotenenti dei boss, uomini di partito, affaristi e persino genitori o parenti – intercettano per i candidati inconsapevoli i consensi della rete criminale (è il caso, ad esempio, del sindaco di Torino Piero Fassino o delle giovani Fortunata Moio e Teresa Costantino).
Accando a questi episodi emergono però anche abboccamenti diretti e più compromettenti. Richieste di voto avanzate senza fare troppe domande. In questi casi i politici coinvolti non possono negare di aver chiesto quei voti, ma giurano di non aver minimamente sospettato della qualità criminale dei loro interlocutori, in alcuni casi ancora da provare in tribunale. Sono gli episodi in cui, come scrivono i magistrati della procura di Milano “non sempre è l’appartenente alla mafia che si infiltra nella società civile” ma “esponenti di istituzioni, della società civile o delle professioni ricercano il rapporto con la mafia”. A questi fatti si sommano poi alcuni casi limite, una decina in tutto, in cui lo scambio, secondo gli inquirenti, avviene nella piena ed esplicita consapevolezza dei ruoli.
È sconcertante vedere quanto in alto riescano a salire gli uomini legati alla criminalità calabrese, nei loro rapporti, prima che scatti un qualche campanello d’allarme. Come un sasso tirato nello stagno, i rapporti tra mafia e politica disegnano centri concentrici che si propagano da alcuni punti nevralgici verso l’esterno. Più rapidi a diffondersi sono trovano interlocutori disponibili, più radi dove i servizi mafiosi non hanno mercato. Dal punto di vista della collocazione politica il partito di gran lunga più avvicinato è il Pdl, con 40 episodi, coincidenti ad oltre la metà dei casi totali, per il resto quasi equamente distribuiti tra Pd, Udc, Idv, liste civiche e altri partiti. Mentre sono tutte di centro-destra le amministrazioni dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa.
I comuni commissariati per mafia sono tutti medio-piccoli, ma il dato non deve trarre in inganno. I tentativi di contatto riguardano infatti anche consiglieri e amministratori provinciali, regionali, nazionali e persino un parlamentare europeo. Se negli ultimi 4 anni i boss calabresi hanno contattato, sostenuto o fatto accordi con 10 sindaci, 6 assessori e 22 consiglieri comunali (guardando ai soli candidati eletti), i rapporti che superano la soglia comunale rappresentano nel complesso circa il 40 per cento del totale, con 12 avvicinamenti di consiglieri o assessori regionali e 6 di politici con cariche provinciali.
Fonte Il fattoquotidiano.it
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