La mafia ha vinto la sua partita a scacchi contro Ignazio Cutrò. L’imprenditore della provincia di Agrigento ha deciso di mollare tutto, vendere quel che resta della sua azienda e abbandonare l’Italia. Una vittoria per le cosche, contro chi, con le sue dichiarazioni, ha consentito alla magistratura di arrestare e far condannare gli estortori con base in una delle aree siciliane dove i clan sono ancora feroci e vendicativi. E il complice di questa sconfitta ha un nome ben preciso: lo Stato. Cutrò ha già comunicato le sue decisioni al viceministro dell’Interno Filippo Bubbico.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’addio agli studi di Veronica e Giuseppe, i due figli di Cutrò. “Si erano trasferiti a Milano con tante speranze – racconta l’imprenditore – ma ora siamo rimasti senza un centesimo in tasca e i miei ragazzi sono dovuti tornare a casa, a Bivona”. Il volto burocratico dell’amministrazione ha colpito duro: nonostante Cutrò, che è anche presidente dell’associazione nazionale testimoni di giustizia, abbia dato il suo contributo da cittadino nella battaglia contro la mafia, a lui ed alla sua famiglia sono stati negati i sostegni necessari per andare avanti. Lavorare è diventato impossibile: nessuno, come da copione per chi denuncia il racket e la mafia – si è più affidato alla sua impresa. Ma cartelle esattoriali e scoperture bancarie non si sono fermate, mettendo con le spalle al muro Cutrò e il destino della sua famiglia. “E’ inutile girarci intorno – racconta commosso – ormai siamo ridotti in miseria”.
“I privati non mi hanno più chiamato per lavorare – continua - e non posso nemmeno partecipare alle gare pubbliche perché, ormai non ho la documentazione amministrativa in regola. Non ho neanche i soldi per vivere, da quasi un mese a casa hanno tagliato luce e gas”. Il braccio di ferro che contrappone Cutrò alle famiglie mafiose che detengono il monopolio del racket estortivo della zona inizia nel 1999, con le prime richieste di “pizzo”. Poi, sono arrivate le minacce e infine gli attentati, con danni gravi ai mezzi della sua azienda e intimidazioni a lui ed ai componenti della sua famiglia. Ma Cutrò non si era mai piegato, ha denunciato ogni episodio e ha offerto la sua collaborazione per incastrare esponenti dei clan, in alcuni casi diventando “l’antenna” delle forze dell’ordine nel realizzare intercettazioni telefoniche ed ambientali.
Cutrò vive sotto scorta e sotto protezione dal 2008. Proprio in quel frangente, all’inizio della sua testimonianza, l’imprenditore avrebbe potuto scegliere una strada più comoda: abbandonare la Sicilia e vivere con una nuova identità a spese dello Stato, con un assegno vitalizio. Ma ha detto no e ha preferito restare in prima linea. Poi la crisi della sua azienda ha fatto il resto. Quella chance di andar via è sembrata l’unica soluzione per salvare almeno i suoi figli. “Ho chiesto al Ministero che ai miei figli venisse concessa quella possibilità di rifarsi una vita, di andare via dalla Sicilia con una nuova identità in una località protetta e ricevere il sussidio dallo Stato. Così, avrebbero potuto studiare e costruirsi un futuro. Ma anche quella richiesta è stata bocciata”. Forse oggi Cutrò si pente di non aver lasciato la Sicilia: “Ma io avevo deciso di continuare a lottare – spiega – e sono rimasto nella mia terra, perché ero convinto che fosse necessario dare una testimonianza concreta di come sia possibile sconfiggere la mafia. Avevo torto. Ero convinto che lo Stato mi avrebbe aiutato. Oggi mi sento sconfitto e il segnale che arriva a chi testimonia contro le cosche mafiose non è certo incoraggiante”.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’addio agli studi di Veronica e Giuseppe, i due figli di Cutrò. “Si erano trasferiti a Milano con tante speranze – racconta l’imprenditore – ma ora siamo rimasti senza un centesimo in tasca e i miei ragazzi sono dovuti tornare a casa, a Bivona”. Il volto burocratico dell’amministrazione ha colpito duro: nonostante Cutrò, che è anche presidente dell’associazione nazionale testimoni di giustizia, abbia dato il suo contributo da cittadino nella battaglia contro la mafia, a lui ed alla sua famiglia sono stati negati i sostegni necessari per andare avanti. Lavorare è diventato impossibile: nessuno, come da copione per chi denuncia il racket e la mafia – si è più affidato alla sua impresa. Ma cartelle esattoriali e scoperture bancarie non si sono fermate, mettendo con le spalle al muro Cutrò e il destino della sua famiglia. “E’ inutile girarci intorno – racconta commosso – ormai siamo ridotti in miseria”.
“I privati non mi hanno più chiamato per lavorare – continua - e non posso nemmeno partecipare alle gare pubbliche perché, ormai non ho la documentazione amministrativa in regola. Non ho neanche i soldi per vivere, da quasi un mese a casa hanno tagliato luce e gas”. Il braccio di ferro che contrappone Cutrò alle famiglie mafiose che detengono il monopolio del racket estortivo della zona inizia nel 1999, con le prime richieste di “pizzo”. Poi, sono arrivate le minacce e infine gli attentati, con danni gravi ai mezzi della sua azienda e intimidazioni a lui ed ai componenti della sua famiglia. Ma Cutrò non si era mai piegato, ha denunciato ogni episodio e ha offerto la sua collaborazione per incastrare esponenti dei clan, in alcuni casi diventando “l’antenna” delle forze dell’ordine nel realizzare intercettazioni telefoniche ed ambientali.
Cutrò vive sotto scorta e sotto protezione dal 2008. Proprio in quel frangente, all’inizio della sua testimonianza, l’imprenditore avrebbe potuto scegliere una strada più comoda: abbandonare la Sicilia e vivere con una nuova identità a spese dello Stato, con un assegno vitalizio. Ma ha detto no e ha preferito restare in prima linea. Poi la crisi della sua azienda ha fatto il resto. Quella chance di andar via è sembrata l’unica soluzione per salvare almeno i suoi figli. “Ho chiesto al Ministero che ai miei figli venisse concessa quella possibilità di rifarsi una vita, di andare via dalla Sicilia con una nuova identità in una località protetta e ricevere il sussidio dallo Stato. Così, avrebbero potuto studiare e costruirsi un futuro. Ma anche quella richiesta è stata bocciata”. Forse oggi Cutrò si pente di non aver lasciato la Sicilia: “Ma io avevo deciso di continuare a lottare – spiega – e sono rimasto nella mia terra, perché ero convinto che fosse necessario dare una testimonianza concreta di come sia possibile sconfiggere la mafia. Avevo torto. Ero convinto che lo Stato mi avrebbe aiutato. Oggi mi sento sconfitto e il segnale che arriva a chi testimonia contro le cosche mafiose non è certo incoraggiante”.
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