ROMA - Il presidente della commissione ministeriale che ha negato la protezione al pentito di mafia Gaspare Spatuzza, il sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano, doveva astenersi da ogni pronuncia perché in precedenza aveva già «bocciato» il collaboratore di giustizia. Di più: aveva accusato pubblicamente i magistrati di «palese violazione di legge» raccogliendo le dichiarazioni dell'ex mafioso sul conto di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri oltre il limite dei sei mesi dal primo verbale imposto dalla legge. Lo disse a novembre del 2009, Mantovano, e il 15 giugno 2010 ha firmato il provvedimento di esclusione di Spatuzza dal programma di protezione, proprio con la motivazione delle accuse fuori tempo massimo.
Non poteva, dicono ora i difensori del pentito nel ricorso contro la delibera della commissione depositato sabato nella cancelleria del Tribunale amministrativo regionale del Lazio. C'erano «gravi ragioni di convenienza» per astenersi dopo aver preso una pubblica posizione tanto chiara, sostengono gli avvocati Valeria Maffei, Adriano Tolomeo e Sergio Luceri. Citano l'articolo 51 del codice di procedura civile nonché altre leggi e sentenze da cui si desume - a loro avviso - l'illegittimità della scelta fatta dalla commissione.
L'onorevole Mantovano - esponente del Popolo della libertà proveniente da Alleanza nazionale, che nelle recenti divisioni all'interno di quella componente s'è schierato al fianco di Berlusconi - presiede un organismo di cui fanno parte alcuni esponenti delle forze dell'ordine e due magistrati della Procura nazionale antimafia. Questi ultimi erano favorevoli alla protezione del pentito, mentre tutti gli altri si sono dichiarati contrari. Ma che autonomia potevano avere i rappresentanti di polizia, carabinieri, guardia di finanza e Direzione investigativa antimafia - chiedono i legali di Spatuzza nel loro ricorso - dopo un'anticipazione di giudizio tanto esplicita del sottosegretario del ministero dal quale dipendono funzionalmente in materia di contrasto al crimine organizzato?
Dubitando che gliene restasse molta, i difensori del pentito domandano al Tar se quella decisione sia stata presa legittimamente. Loro pensano di no e credono che sia assurda - e forse incostituzionale - una norma che fa dipendere dal parere di un organo amministrativo la protezione di un collaboratore di giustizia del quale ben tre Procure più la Direzione nazionale antimafia hanno certificato l'attendibilità e l'utilità alle indagini. I magistrati hanno chiesto una cosa e il governo l'ha negata, con motivazioni che i legali contestano anche nel merito. A loro avviso, infatti, c'erano tracce delle dichiarazioni sui mandanti occulti delle bombe mafiose anche in alcuni verbali di Spatuzza precedenti a quelli in cui nomina Berlusconi e Dell'Utri. Inoltre il pentito ha spiegato di aver inizialmente taciuto per timore di conseguenze personali, visto che Berlusconi era divenuto capo del governo proprio nei giorni in cui l'ex «uomo d'onore» aveva cominciato i suoi interrogatori; per i suoi difensori sarebbe una sorta di esimente dall'eventuale non rispetto dei termini previsti dalla legge, assimilabile alla «legittima difesa».
Nonostante sia stato depositato l'altro ieri, gli avvocati Maffei, Tolomeo e Luceri hanno tempo fino alla fine di settembre per aggiungere altri motivi al loro ricorso. Ed entro quella data potrebbe essere fissata l'udienza davanti al Tar per decidere se confermare o meno l'estromissione di Spatuzza dal programma di protezione. Una decisione tecnico-giuridica dagli evidenti riflessi politici. Perché da quando ha chiamato in causa Berlusconi e Dell'Utri - «all'inizio del 1994 Giuseppe Graviano mi disse che grazie a loro ci eravamo messi il Paese nelle mani» ha detto - il collaboratore che s'è autoaccusato per la strage di via D'Amelio facendo riaprire le indagini sull'omicidio del giudice Borsellino è diventato oggetto di un'aspra contesa. Non solo tra maggioranza e opposizione, ma anche all'interno della maggioranza dopo il distacco dei «finiani» dalle posizioni del premier.
Nella sentenza d'appello che ha condannato Dell'Utri a sette anni di carcere per concorso in associazione mafiosa le dichiarazioni di Spatuzza non hanno pesato, giacché la corte ha ritenuto provata la colpevolezza dell'imputato fino al 1992 e non dopo. Ma solo le motivazioni del verdetto diranno se i giudici hanno ritenuto inattendibile il pentito, oppure semplicemente non riscontrate le sue dichiarazioni. Non è una differenza di poco conto. Anche perché nel frattempo è arrivato un attestato di credibilità verso il collaboratore da parte del giudice che ha condannato tre suoi ex complici per l'omicidio di Giuseppe Di Matteo, il bambino figlio del pentito che svelò i nomi dei killer della strage di Capaci. E l'ex mafioso ha fatto ulteriori dichiarazioni sui rapporti tra mafia e politica. Le ultime - secondo alcune anticipazioni dell'Espresso - chiamerebbero in causa il presidente del Senato Renato Schifani, che avrebbe avuto un ruolo nel contatto dei Graviano con Dell'Utri e Berlusconi. Schifani s'è detto «indignato ma sereno» per le indiscrezioni sul contenuto dei verbali di Spatuzza, ha smentito ogni ipotesi di collusioni e ha assicurato la «massima disponibilità con l'autorità giudiziaria qualora decidesse di occuparsi della questione». I magistrati della Procura di Palermo si apprestano a interrogare nuovamente il pentito, per avere chiarimenti e particolari riguardo all'ipotetico ruolo della seconda carica dello Stato nelle rete di relazioni tra Cosa nostra e i nuovi referenti politici dopo le stragi del 1992.
Fonte: Corriere.it
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