MILANO - "Cialtroni!", tuona Giulio Tremonti da Sondrio quando parla dei governatori del Sud, incapaci di spendere i finanziamenti europei. "Ghe pensi mi" è lo slogan preferito del presidente Berlusconi, la modernità milanese fatta mito. "Roma ladrona" è l'anatema scagliato da Umberto Bossi da Gemonio contro i parassiti nemici del federalismo. Non passa giorno, ora, telegiornale, senza che il governo non metta in scena la sua vera, unica ideologia: l'efficientismo meneghino. E allora come la mettiamo con la figura da cioccolatai che Milano sta rimediando nel mondo con l'Expo del 2015? La fotografia di gruppo del trionfo parigino del 31 marzo 2008, la vittoria su Smirne, campeggia nell'ufficio del sindaco Letizia Moratti.
Tutti in festa, dalla Moratti a Formigoni, da Prodi a D'Alema, da Emma Bonino ai testimonial Al Gore, Jacques Attali, Andrea Bocelli, Clarence Seedorf, e chi più ne ha, più ne metta. Un mega party per festeggiare le magnifiche e progressive sorti della rinascita di Milano, della Fiera, di Malpensa, la grande occasione di una capitale europea che da vent'anni campava di chiacchiere e distintivo, mentre le altre, da Siviglia a Francoforte, da Londra a Berlino, si muovono, cambiano, crescono, fanno affari.
Due anni e mezzo dopo, l'unica cosa positiva rimane quella foto. Trenta mesi e un mare di soldi buttati via in guerre di poltrone. Tre amministratori delegati cambiati, prima l'inutile Paolo Glisenti messo dalla Moratti (il "Rasputin della Bovisa", fu la memorabile definizione di Guido Rossi), poi il rovinoso Lucio Stanca voluto da Berlusconi e ora il city manager Giuseppe Sala, senza che Milano 2015 abbia realizzato e neppure cominciato una sola opera, non l'autostrada Pedemontana, non una delle due linee di metropolitana previste, non un albergo, un museo, una casetta del villaggio d'accoglienza, il centro stampa, la sede Rai. Non parliamo poi della moschea che la Lega insorge o delle leggendarie vie d'acqua o dei nuovi parchi nella città più inquinata d'Europa: miraggi. Nemmeno un accenno d'intervento pubblico si scorge a occhio nudo sull'area di un milione e passa di metri quadrati di Rho Pero destinata a ospitare i fantomatici, almeno oggi, "trenta milioni di visitatori". Tranne i cartelli, ormai comici, con la scritta "Qui sorgerà Milano 2015", che campeggiano sulla distesa di terreni agricoli intonsi.
Ma quando, dove, con i soldi di chi? Le aree sono ancora in mano dell'Ente Fiera e del gruppo Cabassi, in attesa che il Comune, la Regione, la Provincia, Assolombarda, la Camera di Commercio, il Ministero del Tesoro e il governo, insomma Moratti, Formigoni, Berlusconi, la Lega e la community business milanese riescano a trovare un dannato accordo, un giorno solo in cui diranno la stessa cosa, avanzeranno una proposta condivisa. Ne sono passati più di ottocento e quel giorno non è ancora arrivato. Una prova? L'altro ieri Letizia Moratti ha escogitato l'ennesima proposta per le aree dell'Expo, alla media di una al mese. Stavolta il sindaco propone di non acquistare le aree di Fiera-Cabassi, ma di ottenerle in comodato d'uso per sei anni, quindi di restituirle valorizzate ai proprietari una volta smontato l'ultimo stand. Sembra un'idea finalmente ragionevole, in tempi di crisi, ma a Formigoni non piace. Il governatore vuol comprare le aree a tutti i costi, per essere precisi al costo di 200-250 milioni, uno sproposito per un terreno agricolo. Ma in compenso un magnifico affare per gli amici ciellini dell'Ente Fiera.
Non bastasse, arriva la Lega, nella persona del ministro Roberto Calderoli, con una terza ipotesi, non comprare nulla, non usare terreni privati, ma organizzare l'Expo con le strutture fieristiche già esistenti. E questa è soltanto la versione Calderoli, che incarna la corrente bergamasca alla successione di Bossi. Perché i varesotti, i fedelissimi del capo, la pensano come il consigliere d'amministrazione leghista dell'Expo, Leonardo Carioni: "Forse sarebbe meglio lasciar perdere tutta 'sta storia e concentrarsi a riparare le buche nelle strade". L'asse Bossi-Tremonti è Expo scettico da sempre. Se fosse per il Tesoro non si farebbe proprio. "Non vedo perché tanti cinesini dovrebbero venire a vedere l'Expo di Milano", ha sfottuto Tremonti, il quale, con coerenza, nella finanziaria ha tagliato all'evento tutto il tagliabile. Bossi ha dato ai suoi un solo, saggio consiglio: "Non firmate niente, perché poi la Corte dei Conti chiede i soldi a voi".
La Lega, a onor del vero, è stata l'unica forza politica a rilevare fin dal principio l'anomalia, unica della storia, di un Expo progettato su terreni privati e non pubblici. Con tutti i rischi connessi, in una città ormai in mano al conflitto d'interessi e a bande di affaristi che nella migliore delle ipotesi viaggiano sotto le sigle poco rassicuranti della Compagnie delle Opere e del gruppo Ligresti, e nella peggiore portano dritti ai clan della 'ndrangheta. Ma così, col fuoco perenne dei veti incrociati, il gioco dell'Oca dell'Expo torna ogni volta alla casella di partenza, alla foto di gruppo del 28 marzo 2008.
E il grande capo, Silvio Berlusconi? Il signore di Milano è passato in un amen dalla fase "ghe pensi mi" a quella "vedetevela voi". I lunedì di Arcore, dove il signore suole dirimere le beghe fra vavassori, sono stati una catastrofe. L'ultima volta il comitato Expo è salito al completo in villa, con la Moratti e l'energica leader degli industriali Diana Bracco in testa, per illustrare al Cavaliere, circondato dai consiglieri, da Letta a Confalonieri, tutto lo splendore ecologista del progetto di orto globale ("nutriamo il mondo, energia pulita") elaborato da Carlin Petrini e da un pugno di archistar guidato da Stefano Boeri. Ma a metà della fiabesca narrazione ambientalista - il progetto è filosoficamente assai bello - il Cavaliere ha preso visibilmente ad assopirsi, per risvegliarsi soltanto alla magica parola "hostess". Qui Berlusconi ha allestito uno show sui due argomenti preferiti, il secondo era il ruolo della televisione, quindi ha congedato la comitiva con grandi parole di ottimismo.
Il fatto è uno, anzi due. Il primo è che nessun presidente del consiglio si è così tanto disinteressato della capitale economica del Paese quanto Berlusconi. Un paradosso straordinario. I vent'anni in cui Milano ha espresso il leader politico più potente dal dopoguerra a oggi, coincidono con il più lungo periodo di assenza della politica nella storia cittadina. Da Tangentopoli ai giorni nostri, Milano è diventata una palude levantina, una città paralizzata di fronte al proprio declino. Dove il potente e decisionista Duca di Milano, come lo chiamava Gianni Brera, non ha deciso e governato un bel nulla. Si è limitato ad autorizzare, attraverso il vicerè locale Bruno Ermolli, l'ulteriore e spietata cementificazione della città. A partire dalla bella Isola, il quartiere in cui Berlusconi stesso è nato, in via Volturno, davanti alla sede del Pci milanese, circostanza all'origine di tanti traumi.
L'altro fatto è che Berlusconi al 2015 pensa di non arrivarci ed è convinto che dopo di lui ci sarà comunque il diluvio. Mentre i feudatari, Formigoni e Tremonti su tutti, pensano di arrivare dopo Berlusconi. I lettori decidano se era meglio il diluvio. Ma in ogni caso la lotta alla successione di Berlusconi fra l'asse Formigoni-Cl e quello Tremonti-Lega, con ai margini vaghe speranza morattiane, spiega meglio d'ogni altra cosa il pasticciaccio dell'Expo.
È una guerra di feudatari impazziti, troppo concentrati sulle proprie ambizioni per capire la reale posta in gioco, il prestigio di Milano nel mondo. Vale a dire, il prestigio dell'Italia. Perché quale altro prestigio rimane al Belpaese? La grande Milano rappresenta ancora un quarto del Pil, il quaranta per cento degli investimenti stranieri in Italia, la meta di un viaggio d'affari su due, la capitale nazionale della finanza e mondiale della moda, del design, della lirica. I milanesi certo ormai sanno che l'età dell'oro è alle spalle, che il Pil cittadino è in calo da dieci anni, la Fiera è in crisi, la moda perde colpi, Malpensa è un Vietnam del trasporto aereo, la Scala e il Piccolo boccheggiano sotto i tagli alla cultura, le opere pubbliche sono ferme da vent'anni. L'Expo doveva essere la svolta e invece rischia di proiettare nel mondo l'immagine di una capitale del declino italiano.
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Tutti in festa, dalla Moratti a Formigoni, da Prodi a D'Alema, da Emma Bonino ai testimonial Al Gore, Jacques Attali, Andrea Bocelli, Clarence Seedorf, e chi più ne ha, più ne metta. Un mega party per festeggiare le magnifiche e progressive sorti della rinascita di Milano, della Fiera, di Malpensa, la grande occasione di una capitale europea che da vent'anni campava di chiacchiere e distintivo, mentre le altre, da Siviglia a Francoforte, da Londra a Berlino, si muovono, cambiano, crescono, fanno affari.
Due anni e mezzo dopo, l'unica cosa positiva rimane quella foto. Trenta mesi e un mare di soldi buttati via in guerre di poltrone. Tre amministratori delegati cambiati, prima l'inutile Paolo Glisenti messo dalla Moratti (il "Rasputin della Bovisa", fu la memorabile definizione di Guido Rossi), poi il rovinoso Lucio Stanca voluto da Berlusconi e ora il city manager Giuseppe Sala, senza che Milano 2015 abbia realizzato e neppure cominciato una sola opera, non l'autostrada Pedemontana, non una delle due linee di metropolitana previste, non un albergo, un museo, una casetta del villaggio d'accoglienza, il centro stampa, la sede Rai. Non parliamo poi della moschea che la Lega insorge o delle leggendarie vie d'acqua o dei nuovi parchi nella città più inquinata d'Europa: miraggi. Nemmeno un accenno d'intervento pubblico si scorge a occhio nudo sull'area di un milione e passa di metri quadrati di Rho Pero destinata a ospitare i fantomatici, almeno oggi, "trenta milioni di visitatori". Tranne i cartelli, ormai comici, con la scritta "Qui sorgerà Milano 2015", che campeggiano sulla distesa di terreni agricoli intonsi.
Ma quando, dove, con i soldi di chi? Le aree sono ancora in mano dell'Ente Fiera e del gruppo Cabassi, in attesa che il Comune, la Regione, la Provincia, Assolombarda, la Camera di Commercio, il Ministero del Tesoro e il governo, insomma Moratti, Formigoni, Berlusconi, la Lega e la community business milanese riescano a trovare un dannato accordo, un giorno solo in cui diranno la stessa cosa, avanzeranno una proposta condivisa. Ne sono passati più di ottocento e quel giorno non è ancora arrivato. Una prova? L'altro ieri Letizia Moratti ha escogitato l'ennesima proposta per le aree dell'Expo, alla media di una al mese. Stavolta il sindaco propone di non acquistare le aree di Fiera-Cabassi, ma di ottenerle in comodato d'uso per sei anni, quindi di restituirle valorizzate ai proprietari una volta smontato l'ultimo stand. Sembra un'idea finalmente ragionevole, in tempi di crisi, ma a Formigoni non piace. Il governatore vuol comprare le aree a tutti i costi, per essere precisi al costo di 200-250 milioni, uno sproposito per un terreno agricolo. Ma in compenso un magnifico affare per gli amici ciellini dell'Ente Fiera.
Non bastasse, arriva la Lega, nella persona del ministro Roberto Calderoli, con una terza ipotesi, non comprare nulla, non usare terreni privati, ma organizzare l'Expo con le strutture fieristiche già esistenti. E questa è soltanto la versione Calderoli, che incarna la corrente bergamasca alla successione di Bossi. Perché i varesotti, i fedelissimi del capo, la pensano come il consigliere d'amministrazione leghista dell'Expo, Leonardo Carioni: "Forse sarebbe meglio lasciar perdere tutta 'sta storia e concentrarsi a riparare le buche nelle strade". L'asse Bossi-Tremonti è Expo scettico da sempre. Se fosse per il Tesoro non si farebbe proprio. "Non vedo perché tanti cinesini dovrebbero venire a vedere l'Expo di Milano", ha sfottuto Tremonti, il quale, con coerenza, nella finanziaria ha tagliato all'evento tutto il tagliabile. Bossi ha dato ai suoi un solo, saggio consiglio: "Non firmate niente, perché poi la Corte dei Conti chiede i soldi a voi".
La Lega, a onor del vero, è stata l'unica forza politica a rilevare fin dal principio l'anomalia, unica della storia, di un Expo progettato su terreni privati e non pubblici. Con tutti i rischi connessi, in una città ormai in mano al conflitto d'interessi e a bande di affaristi che nella migliore delle ipotesi viaggiano sotto le sigle poco rassicuranti della Compagnie delle Opere e del gruppo Ligresti, e nella peggiore portano dritti ai clan della 'ndrangheta. Ma così, col fuoco perenne dei veti incrociati, il gioco dell'Oca dell'Expo torna ogni volta alla casella di partenza, alla foto di gruppo del 28 marzo 2008.
E il grande capo, Silvio Berlusconi? Il signore di Milano è passato in un amen dalla fase "ghe pensi mi" a quella "vedetevela voi". I lunedì di Arcore, dove il signore suole dirimere le beghe fra vavassori, sono stati una catastrofe. L'ultima volta il comitato Expo è salito al completo in villa, con la Moratti e l'energica leader degli industriali Diana Bracco in testa, per illustrare al Cavaliere, circondato dai consiglieri, da Letta a Confalonieri, tutto lo splendore ecologista del progetto di orto globale ("nutriamo il mondo, energia pulita") elaborato da Carlin Petrini e da un pugno di archistar guidato da Stefano Boeri. Ma a metà della fiabesca narrazione ambientalista - il progetto è filosoficamente assai bello - il Cavaliere ha preso visibilmente ad assopirsi, per risvegliarsi soltanto alla magica parola "hostess". Qui Berlusconi ha allestito uno show sui due argomenti preferiti, il secondo era il ruolo della televisione, quindi ha congedato la comitiva con grandi parole di ottimismo.
Il fatto è uno, anzi due. Il primo è che nessun presidente del consiglio si è così tanto disinteressato della capitale economica del Paese quanto Berlusconi. Un paradosso straordinario. I vent'anni in cui Milano ha espresso il leader politico più potente dal dopoguerra a oggi, coincidono con il più lungo periodo di assenza della politica nella storia cittadina. Da Tangentopoli ai giorni nostri, Milano è diventata una palude levantina, una città paralizzata di fronte al proprio declino. Dove il potente e decisionista Duca di Milano, come lo chiamava Gianni Brera, non ha deciso e governato un bel nulla. Si è limitato ad autorizzare, attraverso il vicerè locale Bruno Ermolli, l'ulteriore e spietata cementificazione della città. A partire dalla bella Isola, il quartiere in cui Berlusconi stesso è nato, in via Volturno, davanti alla sede del Pci milanese, circostanza all'origine di tanti traumi.
L'altro fatto è che Berlusconi al 2015 pensa di non arrivarci ed è convinto che dopo di lui ci sarà comunque il diluvio. Mentre i feudatari, Formigoni e Tremonti su tutti, pensano di arrivare dopo Berlusconi. I lettori decidano se era meglio il diluvio. Ma in ogni caso la lotta alla successione di Berlusconi fra l'asse Formigoni-Cl e quello Tremonti-Lega, con ai margini vaghe speranza morattiane, spiega meglio d'ogni altra cosa il pasticciaccio dell'Expo.
È una guerra di feudatari impazziti, troppo concentrati sulle proprie ambizioni per capire la reale posta in gioco, il prestigio di Milano nel mondo. Vale a dire, il prestigio dell'Italia. Perché quale altro prestigio rimane al Belpaese? La grande Milano rappresenta ancora un quarto del Pil, il quaranta per cento degli investimenti stranieri in Italia, la meta di un viaggio d'affari su due, la capitale nazionale della finanza e mondiale della moda, del design, della lirica. I milanesi certo ormai sanno che l'età dell'oro è alle spalle, che il Pil cittadino è in calo da dieci anni, la Fiera è in crisi, la moda perde colpi, Malpensa è un Vietnam del trasporto aereo, la Scala e il Piccolo boccheggiano sotto i tagli alla cultura, le opere pubbliche sono ferme da vent'anni. L'Expo doveva essere la svolta e invece rischia di proiettare nel mondo l'immagine di una capitale del declino italiano.
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