Non lasciatevi scoraggiare dai racconti che leggerete, non partite prevenuti sapendo che sentirete nelle carni sensazioni atroci, non spaventatevi sapendo che apprenderete di torture orribili e tremende ingiustizie. Gli scritti di Šalamov sono la conferma del bene. Può sembrare paradossale, ma è così. Lo diceva lui stesso. « I miei scritti sono la conferma del bene sul male». Tutta quella sofferenza, quel male, quelle privazioni, alla fine dimostrano quanto l'animo umano sia capace di salvarsi. C'è bellezza e forza sul fondo di tutto quell'orrore.
In Šalamov c'è sempre la consapevolezza di non aver mai e poi mai tradito il prossimo per migliorare la propria condizione. È la cosa di cui più andava fiero.
Šalamov riesce a dimostrare la bontà del singolo gesto nell'inferno quotidiano del gulag. Come la frase di un personaggio di Vasilij Grossman: «Non ci credo, io, nel bene. Io credo nella bontà». Il bene è una considerazione metafisica, lontana, generale, postuma. La bontà è uno spazio del presente. Del guardarsi negli occhi. Di un momento. La bontà è umana, il bene è storico. E quando si parla di progetto storico, di giustizia, di felicità come di qualcosa che trascende l'umano Šalamov ha un brivido di paura. Sa che si parla di qualcosa che l'uomo subirà, che passerà sull'uomo.
Šalamov riesce a dimostrare attraverso l'osservazione della natura che resistere si può. In ogni singola vicenda c'è una stilla di possibilità: la possibilità della vita. Questo discorso nelle pagine di Šalamov non è retorico. Non è nemmeno religioso. Non c'è un voler credere in un contesto dove tutto è disperante e disumano. La sua è una ricerca. Stando in silenzio, lottando per mangiare. L'orgoglio dell'esistenza. La capacità di non lasciarsi corrompere dal bisogno. Si può continuare a essere uomini anche in quelle condizioni, ci si può riuscire. Questa è la grandezza di Šalamov.
In Italia non è stato pubblicato per molti anni. Era uscito per la prima volta nel 1976, fra le polemiche tipiche e desolanti di quegli anni. Poi era scomparso. Mentre I Racconti della Kolyma uscivano in Francia, nel 1980, e negli Stati Uniti nel 1982, da noi si discuteva sull'opportunità o meno di dargli voce. Molti intellettuali vicini al Partito comunista, molti editori vicini al Partito comunista lo rifiutarono considerandolo reazionario, favolistico, esagerato. Šalamov sapeva dell'enorme diffidenza attorno al suo lavoro, ne era cosciente. Veniva spesso accusato di essere anticomunista, disfattista, al servizio delle potenze capitaliste. Per sua disgrazia, era semplicemente uno scrittore. E questo bastava per farlo odiare.
Šalamov racconta un inferno che i lettori non conoscono bene quanto quello di Auschwitz. E che neanche sospettano. Attorno alle atrocità del comunismo sovietico dei gulag è calato il silenzio per troppo tempo. La loro esistenza nell'immaginario di quasi tutti non esiste. Lo conoscono gli specialisti, la parte colta della società. Un silenzio enorme e colpevole. «Mi si prospettava una discesa agli inferi, come Orfeo, insieme alla dubbia speranza di riemergerne ». L'ha fatta due volte quella discesa Šalamov: nel viverla e nel raccontarla una volta uscito. Eppure leggendo queste pagine non si ha mai un senso di malinconia, di depressione. Di scoramento. Incredibilmente le pagine di Šalamov trasudano speranza nella resistenza. Non concedono nulla alla disperazione. La disperazione gli sembra qualcosa che attesta la vittoria del potere. Non bisognava cederle. La morte poteva essere un traguardo sperato. Ma lasciarsi andare, diventare come ti volevano, era per lui la sconfitta peggiore.
Non mi è mai capitato di chiudere un suo libro senza la sensazione di aver capito come cercare di vivere, senza la netta sensazione di aver ricevuto in dono dalle sue storie una mappa per procedere nel quotidiano. Qui, lontano dalla Siberia, lontano dai gulag, lontano anni e chilometri da Stalin. Eppure queste parole dicono di qui, di ora, e ti guidano verso un vivere più cosciente. Più vero. Assoluto. Višera diviene anche una sorta di manuale di sopravvivenza. Non solo nell'universo concentrazionario. È un manuale sulla possibilità di essere uomini, nonostante tutto. «Non avrei temuto niente e nessuno. La paura è un sentimento vergognoso e depravante, che umilia l'uomo. A nessuno avrei chiesto di fidarsi di me, né io mi sarei fidato di alcuno. Per il resto, avrei fatto conto sulla mia intuizione e sulla mia coscienza».
Sente Varlam Šalamov, vuole sentirlo, deve sentirlo di star lì non da solo: «ero dov'ero in nome di coloro che continuamente finiscono in carcere, al confino, nei lager... Essere un rivoluzionario significa prima di tutto essere una persona onesta. Di per sé una cosa semplice, eppure così difficile».
Rivoluzione come onestà. La cosa più complessa che esista. Un'onestà che non deve essere leale verso nessun codice penale, ma verso la parte più profonda di se stessi.
Un giorno Šalamov venne a sapere dell'invenzione di due prigionieri, Miller e Novikov: un vagone che si scaricava da solo. Una semplice, piccola rivoluzione che avrebbe in parte alleggerito il tremendo giogo a cui erano sottoposti nei gulag i prigionieri. Šalamov riuscì a far passare la notizia sulla rivista specializzata «Bor'ba za techniku». Nel 1937 il direttore venne fucilato. Invece al caporedattore che aveva pubblicato la notizia, amico di Šalamov, andò un po' meglio: gli «spezzarono la schiena a furia di botte, a Lefortovo, durante un interrogatorio» dice lui. Però poi aggiunge con una strana forza consolatoria: «Ma è ancora vivo e scrive…». Questa consolazione mi sembra la verità ultima dietro la sua vita. Ecco. È ancora vivo. Ma quel «vivo» non basta. Deve aggiungere: «e scrive ». La speranza, l'unica, passa esclusivamente attraverso la scrittura. E la resistenza. Scrivere è resistere. Non serve altro a Šalamov. Non serve altro ancora a molti altri per continuare a raccontare la propria verità. Scrivere diviene forse una ricompensa a sopportare tutto, una necessità per darsi forza e continuare a vivere. Vivere per scrivere, perché se non lo racconti, non succede. E se non lo fai, nessuno saprà mai che è successo.
Fonte: Ilsole24ore.it
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In Šalamov c'è sempre la consapevolezza di non aver mai e poi mai tradito il prossimo per migliorare la propria condizione. È la cosa di cui più andava fiero.
Šalamov riesce a dimostrare la bontà del singolo gesto nell'inferno quotidiano del gulag. Come la frase di un personaggio di Vasilij Grossman: «Non ci credo, io, nel bene. Io credo nella bontà». Il bene è una considerazione metafisica, lontana, generale, postuma. La bontà è uno spazio del presente. Del guardarsi negli occhi. Di un momento. La bontà è umana, il bene è storico. E quando si parla di progetto storico, di giustizia, di felicità come di qualcosa che trascende l'umano Šalamov ha un brivido di paura. Sa che si parla di qualcosa che l'uomo subirà, che passerà sull'uomo.
Šalamov riesce a dimostrare attraverso l'osservazione della natura che resistere si può. In ogni singola vicenda c'è una stilla di possibilità: la possibilità della vita. Questo discorso nelle pagine di Šalamov non è retorico. Non è nemmeno religioso. Non c'è un voler credere in un contesto dove tutto è disperante e disumano. La sua è una ricerca. Stando in silenzio, lottando per mangiare. L'orgoglio dell'esistenza. La capacità di non lasciarsi corrompere dal bisogno. Si può continuare a essere uomini anche in quelle condizioni, ci si può riuscire. Questa è la grandezza di Šalamov.
In Italia non è stato pubblicato per molti anni. Era uscito per la prima volta nel 1976, fra le polemiche tipiche e desolanti di quegli anni. Poi era scomparso. Mentre I Racconti della Kolyma uscivano in Francia, nel 1980, e negli Stati Uniti nel 1982, da noi si discuteva sull'opportunità o meno di dargli voce. Molti intellettuali vicini al Partito comunista, molti editori vicini al Partito comunista lo rifiutarono considerandolo reazionario, favolistico, esagerato. Šalamov sapeva dell'enorme diffidenza attorno al suo lavoro, ne era cosciente. Veniva spesso accusato di essere anticomunista, disfattista, al servizio delle potenze capitaliste. Per sua disgrazia, era semplicemente uno scrittore. E questo bastava per farlo odiare.
Šalamov racconta un inferno che i lettori non conoscono bene quanto quello di Auschwitz. E che neanche sospettano. Attorno alle atrocità del comunismo sovietico dei gulag è calato il silenzio per troppo tempo. La loro esistenza nell'immaginario di quasi tutti non esiste. Lo conoscono gli specialisti, la parte colta della società. Un silenzio enorme e colpevole. «Mi si prospettava una discesa agli inferi, come Orfeo, insieme alla dubbia speranza di riemergerne ». L'ha fatta due volte quella discesa Šalamov: nel viverla e nel raccontarla una volta uscito. Eppure leggendo queste pagine non si ha mai un senso di malinconia, di depressione. Di scoramento. Incredibilmente le pagine di Šalamov trasudano speranza nella resistenza. Non concedono nulla alla disperazione. La disperazione gli sembra qualcosa che attesta la vittoria del potere. Non bisognava cederle. La morte poteva essere un traguardo sperato. Ma lasciarsi andare, diventare come ti volevano, era per lui la sconfitta peggiore.
Non mi è mai capitato di chiudere un suo libro senza la sensazione di aver capito come cercare di vivere, senza la netta sensazione di aver ricevuto in dono dalle sue storie una mappa per procedere nel quotidiano. Qui, lontano dalla Siberia, lontano dai gulag, lontano anni e chilometri da Stalin. Eppure queste parole dicono di qui, di ora, e ti guidano verso un vivere più cosciente. Più vero. Assoluto. Višera diviene anche una sorta di manuale di sopravvivenza. Non solo nell'universo concentrazionario. È un manuale sulla possibilità di essere uomini, nonostante tutto. «Non avrei temuto niente e nessuno. La paura è un sentimento vergognoso e depravante, che umilia l'uomo. A nessuno avrei chiesto di fidarsi di me, né io mi sarei fidato di alcuno. Per il resto, avrei fatto conto sulla mia intuizione e sulla mia coscienza».
Sente Varlam Šalamov, vuole sentirlo, deve sentirlo di star lì non da solo: «ero dov'ero in nome di coloro che continuamente finiscono in carcere, al confino, nei lager... Essere un rivoluzionario significa prima di tutto essere una persona onesta. Di per sé una cosa semplice, eppure così difficile».
Rivoluzione come onestà. La cosa più complessa che esista. Un'onestà che non deve essere leale verso nessun codice penale, ma verso la parte più profonda di se stessi.
Un giorno Šalamov venne a sapere dell'invenzione di due prigionieri, Miller e Novikov: un vagone che si scaricava da solo. Una semplice, piccola rivoluzione che avrebbe in parte alleggerito il tremendo giogo a cui erano sottoposti nei gulag i prigionieri. Šalamov riuscì a far passare la notizia sulla rivista specializzata «Bor'ba za techniku». Nel 1937 il direttore venne fucilato. Invece al caporedattore che aveva pubblicato la notizia, amico di Šalamov, andò un po' meglio: gli «spezzarono la schiena a furia di botte, a Lefortovo, durante un interrogatorio» dice lui. Però poi aggiunge con una strana forza consolatoria: «Ma è ancora vivo e scrive…». Questa consolazione mi sembra la verità ultima dietro la sua vita. Ecco. È ancora vivo. Ma quel «vivo» non basta. Deve aggiungere: «e scrive ». La speranza, l'unica, passa esclusivamente attraverso la scrittura. E la resistenza. Scrivere è resistere. Non serve altro a Šalamov. Non serve altro ancora a molti altri per continuare a raccontare la propria verità. Scrivere diviene forse una ricompensa a sopportare tutto, una necessità per darsi forza e continuare a vivere. Vivere per scrivere, perché se non lo racconti, non succede. E se non lo fai, nessuno saprà mai che è successo.
Fonte: Ilsole24ore.it
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