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«A 17 anni non ho voluto abortire Ora sono senza casa con mia figlia»

Giovane, diplomata, tanti lavori precari, lo stage a 400 euro al mese, il sogno di una casa: nonostante il nome di battesimo decisamente inusuale, la vita di Cintamani Puddu, la ventunenne romana autrice della lettera che pubblichiamo, a prima vista è simile a quelle di migliaia di altre sue coetanee in Italia. A fare la differenza è sua figlia Sita, avuta a soli 17 anni, e il suo coraggio nel fare di tutto per dare a quella «piccola famiglia felice» composta soltanto da loro due, stabilità e futuro. Cintamani e la sua bambina vivono in una casa occupata da cui stanno per essere cacciate, la famiglia di origine non può o non vuole aiutarle, la piccola rischia di essere affidata ai Servizi sociali, nonostante sia «una bambina serena», con una «madre disperata» che ha solo bisogno di un po’ di aiuto per guardare al futuro con serenità. E speriamo che chi ha il potere di farlo non si tiri indietro. Ecco la lettera scritta da Cintamani Puddu al sindaco di Roma Gianni Alemanno e, per conoscenza, al Corriere della Sera.

LA LETTERA - Non sono contraria, ma sapevo che dentro di me avevo la forzadi andare avanti e amavo già questa bambina, sapevo che ce la potevo fare e ho preso la mia coraggiosa decisione. Ho passato il mio diciassettesimo compleanno portando a testa alta il mio pancione e combattendo con tante persone che non condividevano la mia scelta. Come può immaginare all’epoca frequentavo ancora il liceo, mia figlia è nata nel novembre del mio 4˚ anno all’Istituto Tecnico Statale e per Geometri Federico Caffè. Mia madre non ha mai voluto aiutarmi con la mia bambina ma mi ha permesso di restare a casa con lei finché non mi fossi diplomata. Fortunatamente ho avuto tutto l’aiuto possibile da parte dell’istituto. Visto che all’epoca le assenze non erano motivo di bocciatura, ho passato il 4˚ anno studiando a casa e passando a scuola quando riuscivo a trovare qualcuno che tenesse la mia bambina qualche ora, e in quel tempo mi sottoponevo alle interrogazioni e compiti in classe che imiei compagni svolgevano durante la settimana. Ho studiato a casa, da sola e con una neonata. Quell’anno non ho avuto i massimi voti ma sono riuscita a passare senza debiti formativi. Il 5˚ anno è stato più «semplice», perché grazie all’inserimento di mia figlia all’asilo nido ho potuto frequentare le lezioni. La mattina portavo la mia bambina a scuola, poi mi andavo a lezione al mio istituto e tornavo a casa. Pensavo al mio fratellino e a mia figlia e la notte studiavo. Sono riuscita a diplomarmi nel giusto tempo e con ottimi voti. E’ stata dura, e come sempre sono orgogliosa di me. Dopo il diploma ho dovuto lasciare la mia casa.

La situazione in famiglia non era più sostenibile e sono dovuta andare via. Ho abitato per un anno a casa di una mia amica e del suo compagno, anche lei con una bimba dell’età della mia. Vivevamo in 5 in 2 stanze e io e mia figlia avevamo una «camera» improvvisata dividendo il salone con una libreria. Vi era lo spazio solo per il mio letto a soppalco con sotto la culla della mia bambina. Come era immaginabile, ho dovuto lasciare anche quell’alloggio. Mi sono ritrovata nella situazione di non avere un posto dove abitare. In quella situazione ho avuto la «fortuna » di occupare una casa popolare. Attualmente sto occupando a Roma un alloggio di proprietà dell’ATER, l’Istituto di Case Popolari. Sono residenza in Via Donna Olimpia 30, lotto I, scala A, Interno 4. E come potrà immaginare ho ricevuto lo sfratto. Ragazza madre, con un minore a carico e lavoratrice precaria, sembra che io non abbia i requisiti per ottenere un alloggio. Nell’anno passato ho guadagnato 7.900 euro. Io non so se lei immagina quanto sia dura per una famiglia normale permettersi un affitto con 2 stipendi, soprattutto con gli stipendi che purtroppo ci sono qui per noi gente normale. Io lavoro dal mattino alla sera e quando riesco anche la notte e nei week end. Ma nonostante questo non ho nessuna possibilità di potermi permettere un «normale» affitto.

In questo Paese si predica la proliferazione. Vedo continuamente servizi sul come «nascono pochi bambini » o «le persone non fanno più figli» o «i giovani restano a casa dei genitori troppo a lungo»: ogni volta, mi viene un malore al solo pensiero. Perché mai, e sottolineo mai, ho sentito un servizio del genere che dicesse la verità sul perché succede. Mantenere un bambino, in Italia, è diventato davvero difficile. Non posso permettermi nemmeno di andare dal dottore se sto male perché per me significherebbe perdere un giorno di lavoro e rischiare il posto. Per questo motivo un anno fa sono finita in ospedale con la broncopolmonite. L’assistenza sociale ha detto che l’unico aiuto che potrà dare sarà a mia figlia e non a me perché non ci sono i soldi necessari per inserirmi in una qualche struttura se resto senza alloggio. Sto rischiando di perdere la mia bambina per colpa… del Paese? Dell’economia? Dei soldi? E questo significherebbe non solo rovinare una madre, ma soprattutto rovinare un bambino. Non mi drogo, non ho nessun tipo di dipendenza o problema psicologico. Mia figlia è una bambina serena e io sono una buona madre. Se ritenessi di non fare abbastanza, abbasserei la testa e accetterei. Ma io torno a casa distrutta la sera. Io do tutta me stessa tutti i giorni. Sempre. Sono una madre disperata con una figlia meravigliosa, ho costruito una piccola famiglia felice. Sono una ragazza coraggiosa che ha bisogno di aiuto. Non voglio perdere la mia bambina e a quanto pare non posso farcela da sola. E non ho nessun altro a cui chiedere se non allo Stato.

Fonte: Corriere.it
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