Il capo del governo chiama la questura, ordina di violare la legge e fornisce le menzogne necessarie per farlo. La questura obbedisce, ma c’è un problema: il magistrato. Niente paura: si racconta qualche menzogna anche a lui e alla fine gli ordini del capo del governo diventano legge. Anche se la legge dice il contrario. Anche se i poliziotti dovrebbero essere i “tutori della legge”. È la prova di laboratorio della “riforma della giustizia” berlusconiana, quella sperimentata la sera del 27 maggio sulla linea telefonica tra Palazzo Grazioli e la Questura di Milano. In ciò che è accaduto quella notte intorno a “Ruby” c’è tutta la democrazia ad personam che B. tenta da 16 anni di trasferire nella Costituzione e, nell’attesa, ha trasformato in prassi consolidata. In passato non c’era bisogno di tanta fatica: bastava corrompere politici, finanzieri, magistrati, testimoni e il gioco era fatto. Ma che fare se il poliziotto e il magistrato non si fanno comprare o non c’è tempo per corromperli? Si racconta che Ruby è la nipote di Mubarak (falso; ma, anche se fosse vero, la ragazza non avrebbe diritto ad alcun trattamento particolare), insomma si rischia l’incidente diplomatico con l’Egitto (falso); e che l’igienista dentale-consigliera regionale Nicole Minetti la prenderà con sé (falso, la scaricherà in casa di una escort brasiliana). Questo però non basta al pm dei minori, che raccomanda di tenere la ragazza in questura fino all’avvenuta identificazione o, in alternativa, di affidarla a una comunità protetta: allora si racconta al magistrato che è stata identificata (falso) e che non c’è posto in nessuna comunità protetta (falso, ce n’erano ben quattro disponibili, ma nessuna è stata chiamata, così come non è stato interpellato l’apposito ufficio comunale). Ce ne sarebbe abbastanza per far saltare il questore e il capo di gabinetto, ma il ministro Maroni ripete a pappagallo che “è stata seguita la normale procedura” (falso) ed è “tutto regolare” (falso). Per coprire le menzogne del premier e della questura, deve mentire pure il ministro dell’Interno, subito coperto dal suo leader Bossi, che è pure ministro (Riforme istituzionali) e se ne esce con un incredibile:
“Berlusconi non doveva telefonare in questura: doveva chiamare Maroni o me”. Sintesi spettacolare della concezione proprietaria della democrazia che accomuna il governo della “sicurezza” e della “tolleranza zero” contro l’immigrazione e la criminalità: caro Silvio, se devi salvare un’amica minorenne fermata per furto dalle grinfie di polizia e magistratura (che notoriamente accolgono le minorenni fermate per furto col rituale del bunga bunga), non sporcarti le mani, ci pensiamo io e Maroni che a Milano facciamo il bello e il cattivo tempo. Una pennellata di federalismo sulla Casta del privilegio: la devolution dell’impunità. Chi ancora sobbalza o inorridisce dinanzi a simili spettacoli conservi un po’ di sdegno per il futuro. Ciò che è avvenuto in quella calda notte di fine maggio è quanto ci riserva il futuro se chi può – Napolitano o Fini o tutti e due (tralasciamo volutamente Schifani, la carica dello Stato rimasta, perché ci vien da ridere) – non si affretta a liberarci dal nano. E se dunque la controriforma della giustizia entrerà nella Costituzione. Secondo il progetto Alfano (cioè Berlusconi), il pm non potrà più disporre della polizia giudiziaria, che risponderà in esclusiva al governo; le procure dovranno attendere pazientemente che gli agenti portino sul loro tavolo questa o quella notizia di reato, opportunamente filtrata dal governo stesso, si capisce; ogni anno sarà il Guardasigilli, cioè il governo, a indicare le “priorità” dei reati da perseguire (quelli dei membri e degli amici del governo) e da tralasciare (quelli dei nemici del governo). Dunque, non capiterà più che un poliziotto zelante segnali alla Procura di Milano quel che è avvenuto quella notte in Questura. Vi piace il presepe? È il futuro che ci riserva questo governo. Il caso Ruby ne è la prova su strada. Anzi, su marciapiede.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, in edicola
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