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Antonio Ingroia: «L’omicidio Borsellino per il patto mafia-Stato»

MILANO - «Secondo un’ipotesi investigativa sempre più accreditata, Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso in quanto ritenuto un ostacolo alla trattativa che si sarebbe sviluppata fra Stato e mafia durante la stagione stragista, a cominciare dalla strage di Capaci in cui aveva perso la vita Giovanni Falcone con la moglie e i poliziotti della scorta». E che una trattativa ci fu, «è ormai processualmente accertato».

Se una simile affermazione non viene da un’osservatore qualunque, ma dal procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, acquista inevitabilmente un certo peso. Non fosse perché quello stesso procuratore aggiunto è titolare di una delle indagini ancora aperte sui contatti fra uomini delle istituzioni e Cosa Nostra avvenuti fra il 1992 e il 1993, a cavallo delle stragi. Inoltre, spogliandosi dei panni dell’inquirente e quelli del testimone, amico e «allievo» di Paolo Borsellino che lavorò al suo fianco fino ai giorni precedenti la strage di via D’Amelio, il magistrato aggiunge: «Se ne avesse avuto conoscenza, è certo che Borsellino vi si sarebbe opposto con tutte le sue forze».
Le opinioni di Ingroia sono contenute nell’introduzione che ha voluto firmare al libro del giornalista Maurizio Torrealta intitolato, appunto, La trattativa (Bur-Rizzoli, pagine 651, euro 11), e aprono scenari inquietanti. Veri e propri baratri. Perché le trattative si fanno in due, e se diventano il movente di un omicidio è possibile che quello stesso omicidio abbia almeno due mandanti. Non solo la mafia, dunque, ma anche la controparte.

A sostegno della sua ipotesi, Ingroia cita le sentenze già pronunciate sull’eccidio di via D’Amelio che già evocano contorni che vanno oltre Cosa nostra: «Questo stesso processo - scrivevano i giudici del «Borsellino bis» - è impregnato di riferimenti, allusioni, elementi concreti che rimandano altrove, ad altri centri di interesse, a coloro che in linguaggio non giuridico si chiamano "mandanti occulti", categoria rilevante non solo sotto il profilo giuridico ma anche sotto quello politico e morale». E a conclusione del processo «Borsellino ter» altri giudici scrissero: «Proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi, come Borsellino, avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia, levandosi a denunciare, anche pubblicamente, dall’alto del suo prestigio professionale e dalla nobiltà del suo impegno civico, ogni cedimento dello Stato o di sue componenti politiche ».

Dopo, solo dopo queste sentenze che fotografavano una situazione tutt’altro che chiara, sono arrivate le deposizioni dell’ex mafioso pentito Gaspare Spatuzza e del «testimone assistito» Massimo Ciancimino, che hanno fatto aprire nuove indagini. A Palermo, a Caltanissetta, a Firenze, dove si cercano ancora le verità nascoste sulle bombe del 1993. E’ sulle loro testimonianze, oltre che su quelle dell’altro pentito Nino Giuffrè e dell’ex colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che Torrealta ha costruito il suo libro, partendo da quello che (con lo stesso titolo) aveva già pubblicato nel 2002. Sono dichiarazioni che hanno dato vita a inchieste e processi che non si sono conclusi, e dunque mancano le sentenze definitive. Però lo sfondo del nuovo lavoro di pubblici ministeri e giudici è sempre lo stesso, e rafforza l’idea che dietro quel biennio di attentati non ci fosse solo il «delirio di onnipotenza» dei corleonesi di Totò Riina, ma lo chiama Ingroia, ma una convergenza di altri interessi. Qualcosa che a Walter Veltroni, nella prefazione al volume, ricorda ciò che è accaduto più volte nella storia repubblicana: «Ogni volta che l’Italia sceglie di cambiare arriva il colpo, la bomba, la strage. E un grumo scuro, viscido, impenetrabile, blocca ogni mutamento reale, cosicché il Paese resta fermo nella sua acqua stagnate, nella sua democrazia incompiuta ».

Chi ritenesse questi argomenti condizionati da opinioni politiche, potrà notare che coincidono in gran parte con la lettura data anche di recente dal super-procuratore antimafia Pietro Grasso, che non è un leader di partito come Veltroni ma un magistrato che s’è trovato spesso in disaccordo (soprattutto quando lavoravano entrambi a Palermo) con le impostazioni di Ingroia. Ma anche lui, meno di un mese fa, ha ribadito che attraverso la nuova «strategia della tensione» di inizio anni Novanta, «Cosa nostra ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste».

Il libro di Torrealta offre la più completa documentazione giudiziaria alla base di queste ricostruzioni. E gioverà ricordare che dopo aver scritto uno dei suoi romanzi di successo, Nelle mani giuste, il giudice-scrittore Giancarlo De Cataldo rivelò che la sua guida attraverso i fatti realmente accaduti da lui intrecciati con personaggi di fantasia, fu la prima edizione de La trattativa, ormai introvabile. Ora i lettori hanno la possibilità di tornare a quella fonte, in una nuova, aggiornatissima versione.

Fonte: Corriere.it

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