Le leggi vergogna si dividono in due categorie: quelle che servono a B. e le altre. Riconoscerle è facilissimo: quelle che servono a B., cioè le più incostituzionali, Napolitano le firma all’istante; le altre, quelle un po’ meno incostituzionali, no. Così B. vince sempre e gl’italiani mai. Un anno fa il presidente anticipò addirittura al Consiglio dei ministri riunito d’urgenza che non avrebbe firmato il decreto contro Eluana, raro caso di legge vergogna che non riguardava B. Così il premier fece bella figura col Vaticano, il Quirinale fece bella figura con gli italiani, e la bottega di Arcore non subì danno alcuno. Ieri il capo dello Stato, a quattro anni dalla sua elezione, ha rispedito al mittente la sua prima legge: il ddl sul lavoro (Repubblica l’aveva anticipato il 15 marzo, subendo una furibonda e incredibile smentita del Quirinale). E non perché lo ritenga “palesemente incostituzionale”, come i corazzieri della penna sono soliti interpretare l’art. 74 della Costituzione per dar sempre ragione al presidente firmaiolo. Ma semplicemente perché non gli piace: parla di “estrema eterogeneità, complessità e problematicità di alcune disposizioni”.
Dunque, come abbiamo sempre sostenuto, il Colle può respingere alle Camere le leggi che non condivide. E, se non l’ha mai fatto fino a ieri, vuol dire che condivideva delizie come il mega-indulto esteso ai colletti bianchi (2006), il decreto Mastella per bruciare i dossier Telecom (2007), le leggi razziali del pacchetto sicurezza e il lodo Alfano (2008), lo scudo fiscale (2009) e il decreto salva-liste (2010). O almeno non le riteneva viziate da “problematicità” alcuna. Il che è curioso, ma perfettamente legittimo. Purché non ci venga a raccontare che era obbligato a promulgarle perché “non manifestamente incostituzionali” o perché “se non le firmo la prima volta me le rimandano uguali e devo firmarle la seconda”. Ieri infatti il governo ha annunciato che “modificherà il ddl sul lavoro tenendo conto delle osservazioni del Quirinale”: prima di arrivare allo scontro frontale con Napolitano riscrivendo tale e quale una legge appena respinta, B. ci pensa due volte. Forse, se il presidente avesse respinto pure il lodo e/o lo scudo, oggi non avremmo un premier corruttore impunito né uno Stato che ricicla denaro sporco. A pensar male si fa peccato ma spesso ci s’azzecca: non vorremmo che il capo dello Stato avesse dato un contentino ai critici respingendo una legge che non riguarda B., e ora si preparasse a promulgare tranquillamente quella molto più indecente che salva B. dai processi: il “legittimo impedimento” varato a metà marzo e ancora appeso al Quirinale causa elezioni. Perché questa non è solo una legge che può piacere o meno per motivi di eterogeneità, complessità e problematicità.
E’ certamente e palesemente incostituzionale. Lo dicono presidenti emeriti della Consulta come Valerio Onida. Lo ammette l’onore vole difensore del premier Pietro Longo: “Il legittimo impedimento finisce alla Corte”. E l’ha già detto in due sentenze la Consulta. Nel 2001, pronunciandosi sugli impedimenti di Previti, affermò che “l’esigenza di celebrare i processi in tempi ragionevoli e quella di assicurare un corretto assolvimento dei compiti istituzionali hanno pari rango costituzionale” e spetta al giudice, non certo all’imputato, assicurare un giusto bilanciamento fra le due istanze. Nel 2008, fulminando il lodo, definì “irragionevole e sproporzionata” la “presunzione legale assoluta di legittimo impedimento” dovuta esclusivamente dalla carica ricoperta: gli impedimenti per le alte cariche valgono “solo per lo stretto necessario”, “senza alcun meccanismo automatico e generale”; e cassò la norma immunitaria fatta con legge ordinaria. Ora, il legittimo impedimento per il premier e i ministri è automatico per ben 18 mesi ed è stato imposto con legge ordinaria. Quindi ora Napolitano smentirà i malpensanti e, dopo la legge sul lavoro, boccerà a maggior ragione anche quello. O no?
Fonte: Il Fatto Quotidiano del 01 aprile, in edicola
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