Un illuminato governo mondiale che avesse il compito di trarci fuori dalla crisi ragionerebbe pressappoco così: non basta arrestare il crollo dell’economia e della finanza, obiettivo perseguito finora; uscire davvero dalla crisi significa porre il mondo sul sentiero di una crescita che possa durare nel tempo senza sfociare in una nuova catastrofe: una crescita, come dicono gli economisti, sostenibile.
L’aggettivo «sostenibile» è stato molto approfondito negli ultimi venti o trent’anni e ha almeno tre significati. Il primo è economico- finanziario : per tutti i soggetti pubblici e privati ci deve essere un equilibrio durevole tra risorse impiegate e risorse disponibili. Il secondo è sociale : disparità di vita troppo grandi tra i popoli o i ceti offendono la solidarietà umana e minacciano pace e sicurezza.
Il terzo è ambientale : la natura stessa, un tempo imperturbabile come Giove Olimpo, è diventata fragile e chiede protezione. La crescita ante-2007 era insostenibile sotto il profilo economico-finanziario, oltre che sotto gli altri due. Ignorarlo ha portato al disastro, che ha distrutto molta della ricchezza creata negli anni grassi. Sarebbe irresponsabile farvi ritorno; il tentativo, se compiuto, probabilmente fallirebbe.
Si può allora chiedere: perché mai «crescita»? Non sarebbe meglio la cosiddetta «crescita zero», proposta decenni fa dal Club di Roma? La risposta è no, perché non sarebbe sostenibile socialmente; non basterebbe a migliorare la condizione dell’oltre metà del genere umano priva di scarpe ai piedi, di acqua potabile, di cure mediche adeguate, per non dire del miliardo a rischio di morte per fame. No, quindi, alla crescita zero per il mondo intero; ma sì (o quasi) per il mondo ricco, che scarpe ne ha in abbondanza, lascia aperto il rubinetto dell’acqua, getta molte delle medicine ottenute gratis e da solo produce gran parte del degrado ambientale. In breve: crescita mondiale moderata, concentrata nei Paesi emergenti di Asia e America latina, presidiata da un sistema mondiale di leggi, tasse, spese, incentivi, aiuti, norme ambientali che la rendano sostenibile sotto i tre profili.
Le questioni irrisolte e le difficoltà concettuali non sono da poco, ma un modello di crescita sostenibile non è, per l’economista, terra incognita. Indirizzarvi l’economia- globale-di-mercato, mobilitando i normali strumenti di governo propri di ogni stato moderno non sarebbe impossibile. Politicamente e tecnicamente difficilissimo, sì, ma non impossibile. Sappiamo bene che l’illuminato governo mondiale di cui stiamo parlando non esiste. E allora? Dedurne che il mondo s’incamminerà spontaneamente sul sentiero qui descritto è un’utopia dannosa, al pari del credere che fuori da quel sentiero tutto possa filar liscio. Il pianeta ospita circa duecento Stati che si dicono sovrani, ciascuno intento a promettere l’uscita dalla crisi e a trarre vantaggio da ogni errore o debolezza degli altri. Sono in agguato inflazione, conflitti commerciali, nuove crisi, per non dire guerre minacciate e guerreggiate. Non la mano invisibile di Adamo Smith, ma il caos descritto da Hobbes.
Pensare una crescita mondiale sostenibile è, invece, un’utopia utile, perché anche se il governo mondiale è assai lontano e se il G20, il Fondo monetario internazionale, le Nazioni Unite ne sono solo simulacri pallidissimi, essi sono pur sempre gli unici luoghi dove cercare i frammenti di un’azione responsabile.
Fonte: Corriere.it
L’aggettivo «sostenibile» è stato molto approfondito negli ultimi venti o trent’anni e ha almeno tre significati. Il primo è economico- finanziario : per tutti i soggetti pubblici e privati ci deve essere un equilibrio durevole tra risorse impiegate e risorse disponibili. Il secondo è sociale : disparità di vita troppo grandi tra i popoli o i ceti offendono la solidarietà umana e minacciano pace e sicurezza.
Il terzo è ambientale : la natura stessa, un tempo imperturbabile come Giove Olimpo, è diventata fragile e chiede protezione. La crescita ante-2007 era insostenibile sotto il profilo economico-finanziario, oltre che sotto gli altri due. Ignorarlo ha portato al disastro, che ha distrutto molta della ricchezza creata negli anni grassi. Sarebbe irresponsabile farvi ritorno; il tentativo, se compiuto, probabilmente fallirebbe.
Si può allora chiedere: perché mai «crescita»? Non sarebbe meglio la cosiddetta «crescita zero», proposta decenni fa dal Club di Roma? La risposta è no, perché non sarebbe sostenibile socialmente; non basterebbe a migliorare la condizione dell’oltre metà del genere umano priva di scarpe ai piedi, di acqua potabile, di cure mediche adeguate, per non dire del miliardo a rischio di morte per fame. No, quindi, alla crescita zero per il mondo intero; ma sì (o quasi) per il mondo ricco, che scarpe ne ha in abbondanza, lascia aperto il rubinetto dell’acqua, getta molte delle medicine ottenute gratis e da solo produce gran parte del degrado ambientale. In breve: crescita mondiale moderata, concentrata nei Paesi emergenti di Asia e America latina, presidiata da un sistema mondiale di leggi, tasse, spese, incentivi, aiuti, norme ambientali che la rendano sostenibile sotto i tre profili.
Le questioni irrisolte e le difficoltà concettuali non sono da poco, ma un modello di crescita sostenibile non è, per l’economista, terra incognita. Indirizzarvi l’economia- globale-di-mercato, mobilitando i normali strumenti di governo propri di ogni stato moderno non sarebbe impossibile. Politicamente e tecnicamente difficilissimo, sì, ma non impossibile. Sappiamo bene che l’illuminato governo mondiale di cui stiamo parlando non esiste. E allora? Dedurne che il mondo s’incamminerà spontaneamente sul sentiero qui descritto è un’utopia dannosa, al pari del credere che fuori da quel sentiero tutto possa filar liscio. Il pianeta ospita circa duecento Stati che si dicono sovrani, ciascuno intento a promettere l’uscita dalla crisi e a trarre vantaggio da ogni errore o debolezza degli altri. Sono in agguato inflazione, conflitti commerciali, nuove crisi, per non dire guerre minacciate e guerreggiate. Non la mano invisibile di Adamo Smith, ma il caos descritto da Hobbes.
Pensare una crescita mondiale sostenibile è, invece, un’utopia utile, perché anche se il governo mondiale è assai lontano e se il G20, il Fondo monetario internazionale, le Nazioni Unite ne sono solo simulacri pallidissimi, essi sono pur sempre gli unici luoghi dove cercare i frammenti di un’azione responsabile.
Fonte: Corriere.it
0 commenti to " Tommaso Padoa-Schioppa - Utopie dannose e utopie utili "