Dunque l’11 gennaio la Corte costituzionale deve decidere se la legge 51 del 7 aprile 2010 sul “legittimo impedimento” speciale per il premier e i ministri sia o no costituzionale. La Costituzione dice che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. L’art. 420-ter del Codice di procedura penale dice che il giudice, se accerta che l’imputato non può presenziare a un’udienza per “assoluta impossibilità” dovuta a “caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento”, rinvia l’udienza. La legge 51 dice che l’imputato premier o ministro è più uguale degli altri: con un certificato della segreteria di Palazzo Chigi può imporre al giudice di rinviare le udienze fino a 6 mesi (prorogabili due volte, per un massimo di 18), accampando imprecisati impedimenti dovuti alla “politica generale”, a “ogni attività coessenziale” alle funzioni di governo e addirittura all’”attività preparatoria”. Tutto e niente. Tanto il giudice non può verificare se l’impedimento c’è ed è legittimo: deve obbedire a un segretario della Presidenza del Consiglio, in barba alla Costituzione che vuole il giudice “soggetto soltanto alla legge”. Bastano queste poche note, oltre al parere di 999 costituzionalisti su 1000 (uno su mille ce la fa sempre a vendersi), per far comprendere a tutti, anche i più inesperti, che la legge è totalmente e palesemente e inequivocabilmente incostituzionale. Se la Consulta giudica in base al diritto, non c’è storia: accoglie delle tre eccezioni di incostituzionalità del Tribunale di Milano, rade al suolo la legge e B. torna imputato. Ma, da qualche tempo, la politica s’è infilata anche nel tempio dei giudici delle leggi. Ce l’ha fatto sapere il neopresidente Ugo De Siervo (nomen omen), quando ha incredibilmente spostato l’udienza sul legittimo impedimento dal 14 dicembre all’11 gennaio perché “il clima politico è troppo surriscaldato”.
Cioè perché B., con l’avallo di Napolitano e dei presidenti delle Camere, aveva fissato la fiducia al governo proprio nel giorno in cui da tempo la Corte aveva fissato la fatidica udienza: il 14 dicembre. Così, anziché rivendicare la propria impermeabilità al clima politico e protestare contro lo sgarbo di governo e Parlamento, la Corte s’è scansata e se l’è data a gambe per non disturbare il manovratore. Il quale, per gratitudine, ha seguitato a insultarla, a minacciarla, a dipingerla come un covo di comunisti eversori, nel silenzio del Quirinale improvvisamente a corto di moniti. Ora che l’11 gennaio si avvicina, gli house organ di B. mettono in giro la voce che la giudice Saulle, “orientata verso il centrodestra”, sarebbe a letto con l’influenza: impedimento più che legittimo per giustificare l’ennesimo rinvio, magari al 25, o – meglio ancora – a mai. Il giudice Mazzella invece gode ottima salute: anziché starsene schiscio per far dimenticare la cenetta con B. e Alfano alla vigilia della sentenza sul lodo Alfano, scrive addirittura ai colleghi una lettera accorata per invitarli a dichiarare costituzionale la legge incostituzionale, perché – è il messaggio che piove ogni giorno sulla Consulta – ne va delle “sorti della legislatura e del Paese”. Intanto un giornalista molto introdotto al Quirinale anticipa il presunto orientamento del relatore Cassese (che finora s’è ben guardato dallo svelare ai colleghi il proprio orientamento): “sentenza interpretativa di rigetto”, cioè sì alla legge, ma riscritta in modo da affidare al giudice il potere di valutare di volta in volta gli impedimenti di B. Sarebbe una sentenza politica, oltreché una supersonica sciocchezza, perché questo già è previsto dal 420-ter Cpp e non c’è bisogno di ripeterlo con una nuova legge, che dunque dev’essere cassata e B. tornare imputato come un normale cittadino. Ma ciò che è normale per gli altri diventa maledettamente complicato quando c’è di mezzo B. Comunque vada l’11 gennaio, il fatto stesso che si discuta se una legge incostituzionale debba essere cancellata in toto, o solo in parte, o magari salvata ma reinterpretata, dimostra che ha già vinto lui.
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Fonte: Il Fatto Quotidiano del 30 gennaio, in edicola
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Cioè perché B., con l’avallo di Napolitano e dei presidenti delle Camere, aveva fissato la fiducia al governo proprio nel giorno in cui da tempo la Corte aveva fissato la fatidica udienza: il 14 dicembre. Così, anziché rivendicare la propria impermeabilità al clima politico e protestare contro lo sgarbo di governo e Parlamento, la Corte s’è scansata e se l’è data a gambe per non disturbare il manovratore. Il quale, per gratitudine, ha seguitato a insultarla, a minacciarla, a dipingerla come un covo di comunisti eversori, nel silenzio del Quirinale improvvisamente a corto di moniti. Ora che l’11 gennaio si avvicina, gli house organ di B. mettono in giro la voce che la giudice Saulle, “orientata verso il centrodestra”, sarebbe a letto con l’influenza: impedimento più che legittimo per giustificare l’ennesimo rinvio, magari al 25, o – meglio ancora – a mai. Il giudice Mazzella invece gode ottima salute: anziché starsene schiscio per far dimenticare la cenetta con B. e Alfano alla vigilia della sentenza sul lodo Alfano, scrive addirittura ai colleghi una lettera accorata per invitarli a dichiarare costituzionale la legge incostituzionale, perché – è il messaggio che piove ogni giorno sulla Consulta – ne va delle “sorti della legislatura e del Paese”. Intanto un giornalista molto introdotto al Quirinale anticipa il presunto orientamento del relatore Cassese (che finora s’è ben guardato dallo svelare ai colleghi il proprio orientamento): “sentenza interpretativa di rigetto”, cioè sì alla legge, ma riscritta in modo da affidare al giudice il potere di valutare di volta in volta gli impedimenti di B. Sarebbe una sentenza politica, oltreché una supersonica sciocchezza, perché questo già è previsto dal 420-ter Cpp e non c’è bisogno di ripeterlo con una nuova legge, che dunque dev’essere cassata e B. tornare imputato come un normale cittadino. Ma ciò che è normale per gli altri diventa maledettamente complicato quando c’è di mezzo B. Comunque vada l’11 gennaio, il fatto stesso che si discuta se una legge incostituzionale debba essere cancellata in toto, o solo in parte, o magari salvata ma reinterpretata, dimostra che ha già vinto lui.
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L'ennesima porcata in questa porcata di governo