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"Giancarlo Siani colpito dai clan per il suo talento"


NAPOLI - Caro direttore, ricordare Giancarlo Siani a 25 anni dalla sua morte è per me ricordare un uomo che è stato ammazzato perché aveva talento. Perché capiva e analizzava meglio di altri. Perché faceva bene ciò che aveva deciso di fare. È il solo modo per commemorare il suo sacrificio e ricordare la sua vita. È l’occasione per comprendere il suo modo di concepire il giornalismo e su quanto chi è venuto dopo, debba essergli grato. Il primo premio della mia vita portava il nome di Giancarlo Siani.

Era un premio in sua memoria e mi fu dato proprio nella redazione del Mattino. Erano presenti il fratello Paolo, Geppino Fiorenza di Libera Campania e le firme del Mattino impegnate sul fronte della cronaca giudiziaria. Non dimenticherò quel giorno. Per me rappresentò un onore raro. Forse fu proprio in quell'occasione, pensando a Siani e alla sua vita, che ragionai per la prima volta su quanto fosse importante riscattare la parola "onore" e sottrarla al monopolio delle cosche, che l'hanno fatta diventare sinonimo del loro odioso codice criminale.

L'onore, quello vero, è ciò che ti fa andare avanti a prescindere dalle conseguenze, in virtù di un fortissimo senso di giustizia. Esiste indipendentemente da cosa sei costretto a fare, da cosa ti dicono. Onore è il sentire violata la propria dignità umana dinanzi a un'ingiustizia grave, è il seguire dei comportamenti indipendentemente dai vantaggi e dagli svantaggi, è agire per difendere ciò che merita di essere difeso. E io l'onore l'ho imparato qui a Sud anche grazie a Giancarlo Siani.

Molto si è raccontato negli anni in cui in pochi fortemente ricordavano la sua memoria. Il primo bel lavoro cinematografico su Siani è «E io ti seguo» di Maurizio Fiume, che nel 2003 ripercorreva il suo percorso umano e la sua professione innescata dalla passione del vero. Ma prima che la sua memoria divenisse patrimonio nazionale, per anni si sono dette e ascoltate le più losche insinuazioni. In ogni ambiente sociale e professionale napoletano. I dubbi, il solito vociare delegittimante.

Ma il dolore di chi conosceva e amava Giancarlo Siani, dinanzi ai sospetti, dinanzi al «com'è possibile che ’nu guaglione mette paura ai clan, chissà che schifezze aveva fatto», al «chissà cosa c'è dietro», non è mai rimasto muto, ha sempre urlato la sua indignazione e difeso la memoria. E se Giancarlo Siani oggi viene ricordato come merita è soprattutto grazie a questo dolore, alla sua famiglia, agli amici, ai colleghi che più di tutti ne hanno difeso il ricordo e il lavoro, in un Paese dove si è sempre colpevoli fino a prova contraria anche quando non si siede al banco degli imputati.

E poi le indagini, che dieci anni dopo la sua esecuzione hanno confermato le ipotesi iniziali, non sono riuscite a porre un argine alla solita bile, quella degli addetti ai lavori le cui parole d'ordine, che come ricorda benissimo il libro «L'abusivo» - vero gioiello letterario su Giancarlo Siani - erano: «Io ho scritto cose ben più pericolose, a me non è mai successo niente».

Come se persino la morte facesse invidia. È terribile, ma ahimè è così. La sua morte era avvertita come un merito. E si apre, com'è naturale che sia, la caccia al movente: bisognava trovare per forza qualcosa oltre i suoi articoli, oltre il suo lavoro, oltre le sue inchieste. Qualcosa che è sempre stata a portata di mano. L'abbiamo da 25 anni sotto gli occhi ma in molti hanno preferito non vederla.

Quel che ha portato Siani alla morte è il talento. Fu ucciso per quello che scriveva, una conclusione atroce, nella sua atroce semplicità. Questo giovane corrispondete riusciva nei ristretti spazi che gli venivano concessi a ricostruire gli scenari di camorra, gli equilibri di potere, evitando di arenarsi sul mero dato di cronaca.

Giancarlo Siani formulava nuove ipotesi attraverso elementi che scovava sul campo. Il suo era un giornalismo fondato sull'analisi della camorra come fenomenologia di potere e non come fenomeno criminale. Fare congetture, formulare ipotesi, divenivano nei suoi articoli strumenti per comprendere le articolazioni tra camorra, imprenditoria e politica. Non basta occuparsi di un argomento per riuscire ad arrivare al cuore delle questioni o mettere in crisi i poteri criminali.

Tanti ne scrivono, pochi riescono. Siani era uno dei pochi. A condannarlo a morte furono quelle 4000 battute pubblicate sul Mattino il 10 giugno del 1985, in cui avanzava l'ipotesi che l'arresto di Valentino Gionta fosse il prezzo pagato dai Nuvoletta per evitare una guerra con il clan di Bardellino. A condannarlo a morte furono le ricerche che stava facendo sulla ricostruzione del dopo terremoto, il grande business degli appalti che aveva rimpinguato le tasche di dirigenti politici, imprenditori e soprattutto camorristi.

Già questo basta a individuare il movente e a capire il perché di tanto livore, in una terra in cui o sei da questa o dall'altra parte della barricata. Ed ecco perché ogni qual volta si ricorda un caduto - questa è la parola da usare per gli assassinati dalle organizzazioni criminali - c'è anche il solito fastidioso coro di persone che non riesce a trattenere il proprio risentimento, che diffama i caduti o li strumentalizza per infangare i vivi.

Meccanismo semplice, è un modo per non sentirsi in difetto e colpevoli, come dire: queste persone non sono migliori, sono schifosi mascherati. E così vai a dormire più sereno. Mi piace pensare che Giancarlo Siani non sia solo ricordato perché ucciso. Ma ucciso perché molto, troppo vivo. E ricordare Giancarlo Siani oggi, significa ricordare la vittoria della memoria sulla diffamazione e l'insulto, sull'inciucio e la calunnia generata dalla pancia della città che ama considerare tutto sempre distante da sé.

Ricordare Siani significa comprendere come un uomo, soltanto facendo bene il proprio mestiere, abbia potuto spaventare e mettere in crisi un'organizzazione potentissima. E comprende anche come la solitudine possa condannare due volte, prima a morte, poi alla diffamazione. Ma il ricordo, caro direttore, di Giancarlo Siani è il ricordo della parte migliore del nostro Sud e non perché è caduto ma perché ha creduto nel fare, nell'agire.

Giancarlo è andato avanti, a prescindere dalle conseguenze e non si è arreso. E come lui non si sono arrese le persone che gli erano vicine. Oggi ricordarlo non significa solo fare memoria ma avere dentro di sé speranza e motivo che il coraggio e la forza del suo talento possano ancora illuminare e trasformare il nostro Sud che mai come in questo momento sembra attraversare una lunghissima e buia notte.

Fonte: Ilmattino.it

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