Bisogna essere grati all’onorevole Granata non solo per aver detto ciò che tutti sanno, e cioè che negando la protezione a Spatuzza il governo ostacola la lotta alla mafia. Ma anche per altri due fondamentali motivi. Primo, aver turbato i sonni di Pigi Battista, che intravede nella sua dichiarazione quel “certo morbo giustizialista che evidentemente in Italia alligna in tutti gli schieramenti” (magari!). Secondo, avere riportato alla luce una specie zoologica che si temeva estinta, più rara e inaspettata dell’ippogrifo, del centauro e dell’ircocervo: il proboviro del Pdl. Pare che, ibernati nel museo di storia naturale di Palazzo Grazioli, ne esistano addirittura dieci esemplari. Di più non se ne son trovati, visto che incarnano altrettanti ossimori: oltreché viri, essi devono essere pure probi, il che per il Pdl costituisce una contraddizione in termini. Il loro presidente è un anziano filosofo sui 90 anni, Vittorio Mathieu.
Poi c’è un compagno di classe di B., Guido Possa, poi c’è un pluritrombato ex fondatore di Forza Italia appena distaccato in una società Rai, poi ci sono la signora Armosino e un giudice che lavora con Alemanno, Sergio Gallo, che andava ai convegni di magistrati organizzati dalla P3; completano il quadro tali Tofoni, Sisto, Casali e un certo Cella (un nome, un auspicio). Come rivela Urbani – il più vispo fra i dieci – in due anni di Pdl l’illustre consesso non si è mai riunito. Del resto non ve ne sarebbe stato motivo: in un partito che annovera B., Dell’Utri, Previti, Cosentino, Verdini, Brancher, Scajola, Fitto, Cicchitto, Letta, Cappellacci, Scopelliti, Brancher, Matteoli, Lunardi, Caliendo, Ciarrapico, Angelucci e altri gigli di campo, i probiviri non hanno molta scelta. O si suicidano in massa, oppure per far prima cacciano chi osa parlare di legalità e questione morale. Brutte parole, pure provocazioni. Quando Fini, all’auditorium della Conciliazione, si lasciò scappare “legalità”, la sala fu scossa da un fremito di emozione mista a sdegno e sgomento.
B. rischiò di perdere pure i capelli finti, Verdini accennò alla fuga, Bondi rischiò l’ipossia e La Rissa l’embolo. Ora questo Granata si azzarda addirittura a negare la solidarietà a Dell’Utri, si dice contrario al monumento equestre per Mangano e, non contento, parla financo di lotta alla mafia. Delle due l’una: o è comunista o è indemoniato. La sua incompatibilità balza subito agli occhi di Maurizio Lupi, il ciellino amico di Abelli (vedi scandalo Poggi Longostrevi e voti della ‘ndrangheta) e di Grossi (quello della splendida bonifica a Milano-Santa Giulia): “Granata contraddice i nostri valori fondanti (probabilmente quelli custoditi al Credito Fiorentino di Verdini, ndr). O se ne va o finisce ai probiviri”. Littorio Feltri parla di “intelligenza col nemico”, senza peraltro indicare il nemico (lo Stato? L’antimafia? La legge?); ma il problema vero è l’intelligenza, tara davvero inaccettabile da quelle parti. La Rissa, triumviro del Partito dell’Amore, suggerisce a Granata “il ricovero in ospedale” e dà del “quaquaraquà” (dotta citazione di don Mariano, il padrino del Giorno della civetta). Urbani, molto viro e soprattutto molto probo, anticipa il verdetto: “C’è un’evidente incompatibilità culturale con la stragrande maggioranza del partito”.
La cultura in questione è quella che si insegna all’Università telematica del Cepu, di recente visitata da B., dove Dell’Utri è docente di Storia contemporanea (imperdibili le sue lezioni sui falsi diari del Duce) e Ubaldo Livolsi di Mercati finanziari internazionali (rinviato a giudizio per concorso in bancarotta); ma anche all’annuale seminario di Gubbio, dove il mese prossimo i professori Bondi, Cicchitto, Schifani e Carfagna sviscereranno il tema “Competenza e onestà per una buona politica”. Ancora incerta la presenza di Cosentino che, nel caso fosse ancora a piede libero, dovrebbe chiudere il simposio con una lectio magistralis sull’arte del dossier nel Terzo millennio, dal titolo “Quel culattone di Caldoro, fra bocchiniani e bocchinari”.
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