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Camorra, la sfida dei difensori di Sandokan "Deve pentirsi? Saviano glielo dica in faccia"

NAPOLI - Un altro affronto. Secco come uno schiaffo, mentre a Casal di Principe continuano a cadere i latitanti. Una scossa che non piacerà al padrino Francesco Schiavone detto Sandokan. E certo non è gradito ai suoi avvocati. "Se Saviano ci tiene tanto a provocare fino al pentimento il detenuto Sandokan, perché non chiede un colloquio, non si fa autorizzare dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e viene fino in carcere a convincerlo?". Una provocazione calma, anche venata di sorriso, quella rivolta dal difensore Mauro Valentino. Eccola, la risposta immediata alla lettera aperta 1 che Roberto Saviano ha inviato, attraverso Repubblica, al boss di Casal di Principe.

In carcere, Sandokan può leggere giornali nazionali e usare la televisione. Fatale che sia stato investito dall'urto. L'impatto penetra nel reparto bunker del carcere più grande d'Europa, Milano Opera. Si infila oltre quel cortile dell'ora d'aria che ha pareti alte cinque metri e una rete per copertura. Entra nella cella di sei metri per quattro e riempie la gabbia dove Schiavone, padrino a capo di una famiglia mafiosa parzialmente sfaldata, sta scontando i suoi giorni distillati di risentimento e silenzio, di lettere compulsive alla moglie e odio per i nemici, di farmaci antidepressivi e tristezza dopo la cattura del primogenito, Nicola. E di alimenti passati con il contagocce e abbondanza solo di libri e riviste, pittura e motocilette, Settecento e feste del casertano.

La risposta, ora, è un velo di sarcasmo. "Ma da tecnico", dice l'avvocato Valentino, primo dei difensori del capocosca. "Perché - sottolinea il legale - Saviano non glielo declama in faccia, a Schiavone? Il suo discorso, per me, è condito di frasi offensive e gratuite, vedi "guappo di cartone". Saviano ha pure la scorta, può fare entrare nel penitenziario anche quella. Si accomodi. Lui non teme nulla. E nulla, a mio parere, ha da temere. Non mi risulta sia mai stato minacciato". Saviano, interpellato, dice secco: "Ci sto. Colgo l'invito, poiché credo fermamente in quello che penso e scrivo. Se fossi autorizzato, metterei piede a Milano Opera e lo farei senza timore".

Saviano torna anche sul caso di Gaspare Spatuzza, il collaboratore cui è stato vietato lo status di pentito: "È quasi un modo per ricattarlo, per dirgli basta, è tutto finito, nessuno ti proteggerà. Bisogna permettergli di raccontare tutto quello che sa". Spatuzza, per Saviano, ha ancora molte informazioni da fornire, "certamente da verificare: ma togliendogli la protezione si impedisce di verificare e conoscere nel dettaglio gli elementi. Ormai in Italia la situazione dei collaboratori di giustizia è in difficoltà: si preferisce puntare sulle grandi retate più che sul racconto del business dall'interno".

Parole che penetrano. È l'effetto Gomorra che si moltiplica. La lettera di ieri non ha per bersaglio un impero con i suoi traffici, ma il senso stesso di un'esistenza da capo mafioso al capolinea, la sua pelle, le sue ore, la sua discendenza. "Che destino è il tuo? Una vita da topi cui costringi i tuoi figli. Pèntiti", dice Saviano. E per Schiavone sono nuovi colpi di maglio, come provano le irate considerazioni nelle sue lettere contro "gli avvoltoi giornalisti", contro "il marchio che ci condanna". Ogni giorno parte un fax dal carcere indirizzato alla moglie Giuseppina Nappa detta Maria Pia, quasi laureata. Il marchio del rito. "Caro dolce amore mio". Ogni giorno, lei risponde con un telegramma: "Caro dolce marito". Messaggio che spesso arriva in ritardo, tra le ire del boss. "Le poste mai hanno funzionato e mai funzioneranno".

Poi, l'invito di Saviano. Sono i colpi per il boss forse più sottili e dolorosi - perché non contemplati dalle regole del rischio criminale e delle stangate giudiziarie. Persino più intollerabili delle stesse sentenze, del "fine pena mai" scritto in ultimo dalla Cassazione, l'altro nome dell'ergastolo. "Collabora con la giustizia, riscatta il sangue", gli grida Saviano. Risponde l'altro legale del boss, l'avvocato Alfonso Baldascino. "Noi restiamo i tecnici al servizio della giustizia. Se il detenuto Schiavone mi chiede di difenderlo nell'innocenza, io così faccio. Se poi si vuole pentire? Non mi fa né caldo né freddo. Quanto ai pentiti, ho sempre pensato che sia immorale il contratto che la giustizia firma con i pentiti". Immorale? "Certo, i pentiti dicono 8 o 9 cose buone e una falsa. Quella falsa porta in carcere un innocente. Loro mettono in vendita le conoscenze, lo Stato paga".
A mille chilometri, nella sua Casale, intanto l'affondo dello Stato continua. Lavorano "gli incappucciati". Sono i poliziotti che fanno le riunioni sotto il neon anche a mezzogiorno, porte chiuse e persiane sprangate, in un palazzo confiscato alla mafia di Sandokan, una cellula investigativa radicata nel paese, voluta due anni fa dal capo della polizia Antonio Manganelli. È l'avanguardia dell'antimafia nel cuore dell'Antistato. A guidarli c'è un giovane in polo viola, Alessandro Tocco, 37 anni, quello che ha catturato il figlio del padrino. Sono gli infiltrati, nella patria di Sandokan.

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