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Vietato ai Cinesi. Cartello Choc ad Empoli

EMPOLI. «Vietato ai cinesi se non parlano italiano». No, non è uno scherzo (guarda le foto). È il messaggio scritto con un pennarello nero su un cartoncino bianco, affisso alla porta di un negozio di abbigliamento di Empoli. La gente si ferma, legge, si interroga. C’è chi proprio non ci sta, apre la porta e ne canta quattro al titolare. Che si difende snocciolando aneddoti a sostegno della sua tesi.

Volutamente razzista o no, quel cartello ha scatenato un polverone. A leggerlo ricorda tanto quel “Vietato l’ingresso agli ebrei e ai cani” affisso alla porta di una pasticceria nel film “La vita è bella”: «E allora - dice Guido al piccolo Giosuè - noi non faremo entrare nel nostro negozio i ragni e i visigoti, perché non ti piacciono ». Il genio di Benigni fa scattare un sorriso che copre l’ amarezza, ma non la cancella. Qualcosa del genere è successo anche in questa occasione: c’è infatti chi ha risposto alla provocazione utilizzando la stessa moneta (un cartello), affisso davanti a quello anti-cinesi: «Vietato l’ingresso agli americani che non parlano polacco, agli svedesi che non parlano spagnolo e agli svizzeri che non parlano arabo».

Non la pensa così Gino Pacilli, 63 anni, proprietario del negozio Lulaop di via Giovanni da Empoli, che difende l’iniziativa e allo stesso tempo non ci sta ad essere accusato di razzismo: «Vivo di commercio da quarant’anni e ho avuto tantissimi clienti stranieri. Io non faccio distinzioni di pelle o di etnie: quello che fa la differenza è l’educazione ».

Ecco qual è la “razza” che Pacilli non vuole più nel suo negozio: «i maleducati cinesi: entrano senza neanche chiudere la porta e dare il buongiorno. Fanno il giro del negozio, provano molti capi e non comprano niente. Se provi ad avvicinarli ti dicono che non parlano italiano. Ma non è vero». Allora cosa ci vanno a fare? «Copiano. Ne contiamo una decina al giorno. Vengono qui per guardare le rifiniture e le cuciture dei capi d’abbigliamento: fanno soltanto perdere tempo».

Venerdì scorso la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Un episodio che Gino utilizza come fotografia di ciò che sostiene: «Sono venuti due cinesi. Hanno provato numerosi capi, mi hanno anche fatto smontare un manichino. Naturalmente mi hanno detto subito “non parlale italiano”. Alla fine, puntualmente, non hanno comprato nulla. Poi, quando se ne stavano andando, hanno incontrato una famiglia di italiani e li hanno salutati e ci si sono messi a parlare. Ho chiesto a queste persone se li conoscevano. Risposta: “ Sì, sono proprietari di una confezione. L’italiano? Certo che lo parlano. Mi sono sentito preso in giro. Ecco perché mi sono arrabbiato. E sabato ho affisso il cartello». Gino assicura: «I clienti sono dalla mia parte. Da quando ho affisso il cartello, i cinesi non sono più entrati: ma se non sanno l’italiano come hanno fatto a leggerlo?».

La cosa certa è che Gino ha scatenato un putiferio. Carlo Tempesti, delegato del Circondario Empolese Valdelsa per le politiche dei migranti, ha bollato l’iniziativa come «ingiustificabile frutto di ignoranza» aggiungendo: «La tesi che copiano i capi d’abbigliamento proprio non sta in piedi. I cinesi sanno come si cuce». Nel pomeriggio di ieri intanto è intervenuta la polizia municipale, che ha fatto togliere il cartello, in attesa di capire se ci sono gli estremi per una sanzione.

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