L’amicizia al tempo di Facebook: non più una frequentazione continua fatta di serate, discussioni, reciproche consolazioni. Casomai, un dialogo virtuale fatto di battute tra individui che quando va bene si sono visti due volte. E allora: se abbiamo 768 «amici» su Fb, in che senso li abbiamo?
Se siete su Facebook, lo sapete già. E in questi giorni ne avete avuto la conferma. Quest’anno si sono fatti meno auguri a voce e per telefono e anche per e-mail; e tantissimi via social network, magari urbi et orbi. Ci sono stati meno incontri anche brevi per salutarsi. In compenso, nei momenti in cui si riusciva a tirare il fiato, si andava online. Per scambiare due chiacchiere con qualcuno che non fosse un cognato; per annunciare sul proprio status che si era mangiato troppo; per fare battute sugli ultimi strani eventi italiani; per rincuorare tutti, a metà pomeriggio del 25, con dei «forza e coraggio, tra poco è finita». Poi magari ci si è visti con gli amici. I soliti. Non quelli, magari centinaia, che abbiamo su Fb. E che stanno portando la parte più evoluta del pianeta, insomma i 350 milioni di Facebook, quelli di Twitter e gli altri, a ridefinire il concetto di amicizia. Non più legame affettivo e leale tra affini che fa condividere la vita e (nella letteratura classica) la morte.
Assai più spesso, un contatto collettivo labile che fa condividere video di Berlusconi, Lady Gaga, Elio e le storie tese. Non più una frequentazione continua fatta di serate, discussioni, reciproche consolazioni. Casomai, un dialogo virtuale fatto di battute tra individui che quando va bene si son visti due volte. Poi ci sono i ragazzini che stanno crescendo insieme ai social network. Ma loro sono — in parte— un’altra storia.
Perché in questi tempi di social networking «l’amicizia si sta evolvendo, da relazione a sensazione. Da qualcosa che le persone condividono a qualcosa che ognuno di noi abbraccia per conto suo; nell’isolamento delle nostre caverne elettroniche, armeggiando con i tanti piccoli pezzi di connessione come una bambina solitaria gioca con le bambole». Eccoci sistemati tutti. Ecco perché, magari, dopo certi pomeriggi domenicali passati a chattare, non ci si sente appagati, casomai lievemente angosciati e col mal di testa. La cupa frase è diWilliam Deresiewicz, ex professore di Yale e saggista, autore di un saggio su The Chronicle of Higher Education e una conferenza sulla National Public Radio dedicata alle «false amicizie». La preoccupazione è di molti, in America e fuori. Se ne è occupato persino il Wall Street Journal. La serie tv di nicchia «In Therapy» ha fornito la battuta-pietra tombale (speriamo di no): «Le famiglie sono ormai andate e gli amici stanno andando via per la stessa strada». Deresiewicz infierisce: «Essendo state relegate agli schermi dei computer, le amicizie sono qualcosa di più di una forma di distrazione? Quando sono ridotte alle dimensioni di un post in bacheca, conservano qualche contenuto? Se abbiamo 768 "amici", in che senso li abbiamo? Facebook non include tutte le amicizie contemporanee; ma di certo mostra il loro futuro». Morale: «L’immagine del vero amico, un’anima affine rara da trovare e molto amata, è completamente scomparsa dalla nostra cultura».
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Se siete su Facebook, lo sapete già. E in questi giorni ne avete avuto la conferma. Quest’anno si sono fatti meno auguri a voce e per telefono e anche per e-mail; e tantissimi via social network, magari urbi et orbi. Ci sono stati meno incontri anche brevi per salutarsi. In compenso, nei momenti in cui si riusciva a tirare il fiato, si andava online. Per scambiare due chiacchiere con qualcuno che non fosse un cognato; per annunciare sul proprio status che si era mangiato troppo; per fare battute sugli ultimi strani eventi italiani; per rincuorare tutti, a metà pomeriggio del 25, con dei «forza e coraggio, tra poco è finita». Poi magari ci si è visti con gli amici. I soliti. Non quelli, magari centinaia, che abbiamo su Fb. E che stanno portando la parte più evoluta del pianeta, insomma i 350 milioni di Facebook, quelli di Twitter e gli altri, a ridefinire il concetto di amicizia. Non più legame affettivo e leale tra affini che fa condividere la vita e (nella letteratura classica) la morte.
Assai più spesso, un contatto collettivo labile che fa condividere video di Berlusconi, Lady Gaga, Elio e le storie tese. Non più una frequentazione continua fatta di serate, discussioni, reciproche consolazioni. Casomai, un dialogo virtuale fatto di battute tra individui che quando va bene si son visti due volte. Poi ci sono i ragazzini che stanno crescendo insieme ai social network. Ma loro sono — in parte— un’altra storia.
Perché in questi tempi di social networking «l’amicizia si sta evolvendo, da relazione a sensazione. Da qualcosa che le persone condividono a qualcosa che ognuno di noi abbraccia per conto suo; nell’isolamento delle nostre caverne elettroniche, armeggiando con i tanti piccoli pezzi di connessione come una bambina solitaria gioca con le bambole». Eccoci sistemati tutti. Ecco perché, magari, dopo certi pomeriggi domenicali passati a chattare, non ci si sente appagati, casomai lievemente angosciati e col mal di testa. La cupa frase è diWilliam Deresiewicz, ex professore di Yale e saggista, autore di un saggio su The Chronicle of Higher Education e una conferenza sulla National Public Radio dedicata alle «false amicizie». La preoccupazione è di molti, in America e fuori. Se ne è occupato persino il Wall Street Journal. La serie tv di nicchia «In Therapy» ha fornito la battuta-pietra tombale (speriamo di no): «Le famiglie sono ormai andate e gli amici stanno andando via per la stessa strada». Deresiewicz infierisce: «Essendo state relegate agli schermi dei computer, le amicizie sono qualcosa di più di una forma di distrazione? Quando sono ridotte alle dimensioni di un post in bacheca, conservano qualche contenuto? Se abbiamo 768 "amici", in che senso li abbiamo? Facebook non include tutte le amicizie contemporanee; ma di certo mostra il loro futuro». Morale: «L’immagine del vero amico, un’anima affine rara da trovare e molto amata, è completamente scomparsa dalla nostra cultura».
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