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Rutelli: sì, lascio il Pd. Questo non è il mio partito

Lascia il Partito democratico?

«Sì».

Eppure lei è stato uno dei fondatori di que­sto partito, nato da pochissimo tempo. La cre­atura è ancora piccola e lei va già via di casa?


«Il Pd non è mai nato. Nonostante la passio­ne e la disponibilità di tanti cittadini, non è il nuovo partito per cui abbiamo sciolto la Mar­gherita e i Ds. Non ho nulla contro un partito democratico di sinistra, ma non può essere il mio partito».

Si è pentito di aver sciolto la Margherita?

«Vede, abbiamo posto tre condizioni, sospen­dendo l’attività della Margherita: niente appro­do nel socialismo europeo; ma siamo finiti lì. Basta collateralismo, basta vecchie cinghie di trasmissione tra politica, corpi sociali, interessi economici; ma le file organizzate di pensionati Cgil, alle primarie, dimostrano che non ne sia­mo fuori. Pluralismo politico; ma anziché crea­re un pensiero originale, si oscilla tra babele cul­turale e voglia di mettere all’angolo chi dissen­te. La promessa, dunque, non è mantenuta: non c’è un partito nuovo, ma il ceppo del Pds con molti indipendenti di centrosinistra».

La Margherita può rispuntare?

«No. Ma occorre riflettere su quelle tre condi­zioni politiche. Erano tassative. E non sono sta­te rispettate».

Perché aborre la socialdemocrazia?

«Non aborro assolutamente la socialdemo­crazia. Anzi: se fossimo nel 1982, le direi che la ammiro. Ma siamo nel 2009: è un’esperienza storica che non ha alcuna possibilità di parlare ai contemporanei. Non ci sono più le fabbriche, i sindacati, le strutture sociali del Novecento».

Quando va via ufficialmente?

«Subito, anche se con dolore. Il Pd è stato il sogno di molti anni. C’è però una cosa che mi angoscia: l’incomprensione della gravità assolu­ta della condizione del Paese. È possibile uscir­ne, è possibile, come dice il nostro Manifesto per il cambiamento e il buongoverno, trovare le soluzioni giuste per l’economia, il lavoro, le piccole imprese, la crescita e la coesione del Pae­se.

Ma se non cambia quest’offerta politica, tut­to è già scritto: vince una destra dominata dal patto Berlusconi-Lega».

Quali sono le prospettive politiche?

«Cambiare l’offerta politica significa unire forze democratiche, liberali, popolari. Contrap­porsi al populismo di destra, alla xenofobia, al radicalismo di sinistra, al giustizialismo. E defi­nire una proposta credibile. Io la mia decisione l’ho presa. La manterrei, anche se fossi solo. Ma non sarò solo. Vedo molte forze che erano in fuga dalla politica tornare in campo. Quindi, una crescita per tutti».

La meta è la fine del bipolarismo e la nasci­ta di un nuovo centro?

«L’alternanza, in democrazia, è indispensabi­le. Il Pd era concepito per riconquistare il cuo­re, il centro della società italiana. Il suo sposta­mento a sinistra impone che altri assolvano questo impegno fondamentale. Oggi, né la sini­stra, né il cosiddetto centrismo parlano ai giova­ni, alle partite Iva, alle persone sensibili all’am­biente. Occorrono progetti pragmatici, ed emo­zioni. Occorre un’onestà senza macchie. Una lai­cità senza intolleranza».

Quale sarà il nome del nuovo partito? Chi vi finanzia? E dove sarà la sede?

«È troppo presto per parlare di nomi, di fi­nanziamenti e di sedi. La scelta politica è fatta, per il resto c’è tempo».

Lei, come ha scritto Pierluigi Battista, ha al­le spalle una storia di partiti cambiati o ab­bandonati. I radicali, i Verdi, la Margherita. Ma è possibile, nel volgere di pochi lustri, par­lare di una sempre nuova offerta politica o, come disse una volta, di un nuovo conio, sen­za che si capisca mai bene il portato ideale di questi mutamenti?

«Sì, in trent’anni mi onoro di aver aderito ai radicali, ai Verdi, alla Margherita. E allora? Quanti ex fascisti non vengono interpellati allo stesso modo? Quanti ex rivoluzionari di sini­stra oggi siedono nel governo Berlusconi? Che vengano da destra o da sinistra, nel Pdl sanno che il loro potere non sopravvivrà nel dopo Ber­lusconi. Guardando a sinistra, ho ricordato che molti altri hanno avuto almeno tre partiti, pri­ma del Pd: Pci, Pds, Ds. La differenza è che in cuor loro si sentono in perfetta continuità. Ec­co: questa mancata discontinuità è uno dei maggiori problemi che avrà il Pd. Però gli augu­ro sinceramente il meglio, nell’interesse del Pa­ese e dell’alternativa al populismo di destra».

Come risponde alle accuse d'incoerenza o di opportunismo?

«Su di me si esercita una polemica che non finisce mai. Ricorda, ai tempi del Giubileo, 'l’ex-radicale che è diventato amico di Giovan­ni Paolo II'? Come se non si potesse essere cre­denti, secondo certi laicisti furiosi — come ha scritto Giancarlo Bosetti — senza stringere pat­ti di potere con le gerarchie vaticane! C’è una contraddizione di fondo, però, in queste pole­miche contro di me: essere un laico cristiano risponde a una scelta di opportunismo? Oppu­re è il contrario, visto che per difendere alcune convinzioni ho certamente pagato, e tuttora pa­go, un prezzo molto maggiore dei supposti be­nefici? » .
Se avesse vinto Dario Franceschini, sareb­be rimasto nel Pd? O aveva già deciso prima di conoscere l’esito delle primarie?

«Guardi, l’esito del congresso era chiaro da parecchi mesi. E l’ho anticipato nel mio libro, La svolta » .

Qual è il suo giudizio su Pier Luigi Bersani?

«Persona seria. Non so come intenda fare il suo lavoro d’inclusione nel partito che guida. A me, ad esempio, da quando si è candidato, non ha fatto neppure una telefonata. Ma non mi of­fendo certo: è politica».
Che cosa le ha detto Massimo D'Alema nel colloquio dell’altro giorno?

«Abbiamo parlato di economia, dell’incredi­bile caso Marrazzo, della sua candidatura — che giudico eccellente — per la guida della poli­tica estera europea. Quanto al Pd, mi ha garbata­mente detto che ci sarebbe spazio per me, ma gli ho spiegato che questo non è il Pd che avrei voluto far nascere. Potremo collaborare da po­stazioni diverse, e ho fiducia che questo amplie­rà le forze».
Chi l’ha chiamata in questi giorni? Chi ha cercato di frenarla e chi al contrario l’ha solle­citata a fare questa traumatica scelta?
«Ho ricevuto migliaia di messaggi d’incorag­giamento, adesioni, sostegni. Molti, prestigio­si. Tante email di critiche da elettori del Pd: cer­cherò, nei prossimi giorni, di rispondere a tut­ti. A frenarmi? Alcuni amici di lungo corso, co­me Paolo Gentiloni. Ma è stato più formale che altro. Sanno perfettamente, da anni, che non sa­rei mai entrato in un Pd post-Pci. Quanto a lo­ro, purtroppo, s’illudono».
Ha parlato con Silvio Berlusconi?

«No».

Qual è il suo stato d’animo?

«Determinazione, e desiderio di far crescere una squadra: assolutamente, non un 'partito di Rutelli'. Del resto, i nomi di Bruno Tabacci, Lo­renzo Dellai, Linda Lanzillotta, già dicono mol­to. Le firme al Manifesto indicano una potenzia­lità enorme, che può raggiungere anche settori moderati, e in sofferenza, del centrodestra».

Pier Ferdinando Casini sostiene che assie­me potreste prendere cinque milioni di voti. È il leader dell’Udc il suo alleato naturale?

«Casini è un interlocutore essenziale. Ed è giusto guardare lontano: con proposte serie, si può puntare a unire molte altre energie. Sino a creare, in alcuni anni, la prima forza del Paese».

Fonte: Corriere.it
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