Ore 9 e 20 del mattino, un ufficio del carcere di Opera, tavolo pronto per la registrazione e le videoriprese, secondo prassi e secondo codice. Ma questa volta la prassi non c’entra. E non basta. Perchè davanti ai magistrati della procura di Caltanissetta che indagano sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio siede Totò Riina, il - o l’ex - capo dei capo in carcere dal gennaio 1993 e che da allora non ha mai accettato neanche per sbaglio di parlare con i magistrati. Con lo Stato.
Dopo sedici anni di silenzi e carcere duro rotti al massimo da messaggi veicolati dalle gabbie dei processi o dalla cella tramite l’avvocato, Riina «comincia a ragionare con lo Stato». Lo fa per tre ore. E riempie pagine di verbali, non moltissime, ma sono fogli che in basso e di lato portano la firma del Curtu. «Abbiamo cominciato un ragionamento» dice l’avvocato Luca Cianferoni che segue il boss di Cosa Nostra fin dalla prima metà degli anni novanta, «sulla vicenda di via D’Amelio che è una storia che ha bisogno di essere chiarita. Abbiamo cominciato oggi, poi vedremo dove ci porterà questo ragionamento». Punto, ufficialmente l’avvocato altro non dice perché «gli atti sono stati tutti secretati». Anche il procuratore Lari ammette solo e con molto cautela: «Riina è stato sentito lungamente». Un interrogatorio che, riassume uno dei presenti, «non sconvolge ma neppure lascia fermi». Che, assicura il legale, porterà sviluppi. Riina, infatti, ha promesso che consegnerà a breve un lungo memoriale. Tutto quello che sa, e che non ha mai detto in sedici anni visto che non ha mai risposto ad una domanda degli inquirenti, lo metterà per iscritto.
Era stato Riina, una settimana fa, a chiedere di essere sentito. Lo aveva fatto a modo suo affidando al suo avvocato una dichiarazione a suo modo esplosiva. «Ne so poco perché qui non mi passano nemmeno i giornali - ha detto il legale ai giornalisti riferendo parole del suo assistito - Ma questa storia della "trattativa", di un mio "patto" con lo Stato, di tutti gli impasti con carabinieri e servizi segreti legati al fatto di via D'Amelio, non sta proprio in piedi. Io della strage non ne so parlare. Borsellino l'ammazzarono loro». Dove “loro” «sono quelli che hanno fatto la trattativa, quelli che hanno scritto il "papello", come lo chiamano. Ma io della trattativa non posso saperne niente di niente. Perché io sono oggetto, non soggetto di trattativa. E la stessa cosa è per quel foglio con le richieste che qualcuno avrebbe presentato attraverso Vito Ciancimino. Mai scritto da me. Facciamo pure la perizia calligrafica e scopriremo che io non ho niente a che fare con questa vicenda».
Dichiarazione esplosiva e sconvolgente perché arriva in un momento preciso: per il 17° anniversario della strage di via D’Amelio in cui morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta; mentre Massimo Ciancimino (a Palermo), figlio di don Vito, torna a parlare del papello e della trattativa, rivela di lettere di minacce a Berlusconi annullate in cambio di una rete tivù. Si fa sentire, Riina, soprattutto dopo aver saputo che un suo ex socio, Gaspare Spatuzza, killer di Brancaccio, braccio militare delle stragi, ha avuto una specie di crisi mistica e sei mesi fa ha cominciato a raccontare un’altra verità su via D’Amelio che annulla parte della sentenza già passata in giudicato.
Così, in questo contesto che pesa forse più delle singole parole, nasce la missione della procura di Caltanissetta ieri mattina al carcere di Opera. Riina, 79 anni, ha parlato dalle 9 e 20 alle 11 e 40. Avrebbe detto che lui della famosa trattativa tra Stato e Cosa Nostra per far tacere armi e bombe in cambio di sconti e benefici ai boss, «non ne sa nulla», «da me non è venuto nessuno». Come a dire che semmai Riina di questa trattativa è stato una vittima e non certo un artefice. Del resto è un fatto che lui sei mesi dopo (gennaio 1993) è stato arrestato/consegnato dopo 25 anni di latitanza. L’ex boss, acciaccato e malandato, parla sempre il suo italiano molto approssimativo, difficile da seguire, e però su altri due punti è stato netto. Il primo: «Andate a vedere là, al castello Utvegio, quella è roba vostra»; il secondo: «Non usate certe parole con me». Le parole sono «pentito» e «collaboratore di giustizia». Pare che al vecchio boss si siano incendiati gli occhi quando qualcuno dei magistrati ha prospettato anche questa possibilità.
Occorre ora, però, spiegare cosa è il castello Utvegio, costruzione anni Venti sul monte Pellegrino, su cui si è a lungo soffermata la sentenza Borsellino. Nei primi anni Novanta è stata la sede di alcuni irregolari del Sisde, l’attuale Aisi. Qui arrivarono, poco prima della strage di via D’Amelio, alcune telefonate di quel Gaetano Scotto, mafioso dell’Aquasanta, condannato per la strage. Il fratello, Pietro, lavorava per la Elte, la ditta che si occupa di telefonia e che aveva lavorato agli impianti Sisde di castello Utvegio. Gaetano aveva messo sotto controllo le utenze di casa Borsellino. Un capitolo dell’inchiesta su cui aveva lavorato il consulente della polizia Gioacchino Genchi, mai del tutto chiarito. Pochi secondi dopo la strage, ad esempio, parte una telefonata a Bruno Contrada, all'epoca capo del Sisde a Palermo poi condannato per mafia, da un'utenza intestata a Paolo Borsellino.
Servizi segreti, inchieste riaperte, il memoriale di Riina: ingredienti perfetti per una lunga estate di rivelazioni. O di veleni. Troppo presto per parlare solo di un’altra tragediata
Dopo sedici anni di silenzi e carcere duro rotti al massimo da messaggi veicolati dalle gabbie dei processi o dalla cella tramite l’avvocato, Riina «comincia a ragionare con lo Stato». Lo fa per tre ore. E riempie pagine di verbali, non moltissime, ma sono fogli che in basso e di lato portano la firma del Curtu. «Abbiamo cominciato un ragionamento» dice l’avvocato Luca Cianferoni che segue il boss di Cosa Nostra fin dalla prima metà degli anni novanta, «sulla vicenda di via D’Amelio che è una storia che ha bisogno di essere chiarita. Abbiamo cominciato oggi, poi vedremo dove ci porterà questo ragionamento». Punto, ufficialmente l’avvocato altro non dice perché «gli atti sono stati tutti secretati». Anche il procuratore Lari ammette solo e con molto cautela: «Riina è stato sentito lungamente». Un interrogatorio che, riassume uno dei presenti, «non sconvolge ma neppure lascia fermi». Che, assicura il legale, porterà sviluppi. Riina, infatti, ha promesso che consegnerà a breve un lungo memoriale. Tutto quello che sa, e che non ha mai detto in sedici anni visto che non ha mai risposto ad una domanda degli inquirenti, lo metterà per iscritto.
Era stato Riina, una settimana fa, a chiedere di essere sentito. Lo aveva fatto a modo suo affidando al suo avvocato una dichiarazione a suo modo esplosiva. «Ne so poco perché qui non mi passano nemmeno i giornali - ha detto il legale ai giornalisti riferendo parole del suo assistito - Ma questa storia della "trattativa", di un mio "patto" con lo Stato, di tutti gli impasti con carabinieri e servizi segreti legati al fatto di via D'Amelio, non sta proprio in piedi. Io della strage non ne so parlare. Borsellino l'ammazzarono loro». Dove “loro” «sono quelli che hanno fatto la trattativa, quelli che hanno scritto il "papello", come lo chiamano. Ma io della trattativa non posso saperne niente di niente. Perché io sono oggetto, non soggetto di trattativa. E la stessa cosa è per quel foglio con le richieste che qualcuno avrebbe presentato attraverso Vito Ciancimino. Mai scritto da me. Facciamo pure la perizia calligrafica e scopriremo che io non ho niente a che fare con questa vicenda».
Dichiarazione esplosiva e sconvolgente perché arriva in un momento preciso: per il 17° anniversario della strage di via D’Amelio in cui morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta; mentre Massimo Ciancimino (a Palermo), figlio di don Vito, torna a parlare del papello e della trattativa, rivela di lettere di minacce a Berlusconi annullate in cambio di una rete tivù. Si fa sentire, Riina, soprattutto dopo aver saputo che un suo ex socio, Gaspare Spatuzza, killer di Brancaccio, braccio militare delle stragi, ha avuto una specie di crisi mistica e sei mesi fa ha cominciato a raccontare un’altra verità su via D’Amelio che annulla parte della sentenza già passata in giudicato.
Così, in questo contesto che pesa forse più delle singole parole, nasce la missione della procura di Caltanissetta ieri mattina al carcere di Opera. Riina, 79 anni, ha parlato dalle 9 e 20 alle 11 e 40. Avrebbe detto che lui della famosa trattativa tra Stato e Cosa Nostra per far tacere armi e bombe in cambio di sconti e benefici ai boss, «non ne sa nulla», «da me non è venuto nessuno». Come a dire che semmai Riina di questa trattativa è stato una vittima e non certo un artefice. Del resto è un fatto che lui sei mesi dopo (gennaio 1993) è stato arrestato/consegnato dopo 25 anni di latitanza. L’ex boss, acciaccato e malandato, parla sempre il suo italiano molto approssimativo, difficile da seguire, e però su altri due punti è stato netto. Il primo: «Andate a vedere là, al castello Utvegio, quella è roba vostra»; il secondo: «Non usate certe parole con me». Le parole sono «pentito» e «collaboratore di giustizia». Pare che al vecchio boss si siano incendiati gli occhi quando qualcuno dei magistrati ha prospettato anche questa possibilità.
Occorre ora, però, spiegare cosa è il castello Utvegio, costruzione anni Venti sul monte Pellegrino, su cui si è a lungo soffermata la sentenza Borsellino. Nei primi anni Novanta è stata la sede di alcuni irregolari del Sisde, l’attuale Aisi. Qui arrivarono, poco prima della strage di via D’Amelio, alcune telefonate di quel Gaetano Scotto, mafioso dell’Aquasanta, condannato per la strage. Il fratello, Pietro, lavorava per la Elte, la ditta che si occupa di telefonia e che aveva lavorato agli impianti Sisde di castello Utvegio. Gaetano aveva messo sotto controllo le utenze di casa Borsellino. Un capitolo dell’inchiesta su cui aveva lavorato il consulente della polizia Gioacchino Genchi, mai del tutto chiarito. Pochi secondi dopo la strage, ad esempio, parte una telefonata a Bruno Contrada, all'epoca capo del Sisde a Palermo poi condannato per mafia, da un'utenza intestata a Paolo Borsellino.
Servizi segreti, inchieste riaperte, il memoriale di Riina: ingredienti perfetti per una lunga estate di rivelazioni. O di veleni. Troppo presto per parlare solo di un’altra tragediata
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