Roberto Saviano è il suo dito indice, che mentre parla non trova pace e anticipa la mano, in ogni suo movimento. Che sale alla tempia per dire dei pazzi, che rotea raccontando il tempo che scorre, che si punta, rigido, in avanti e chiede conto delle cose. È con questo dito che, scrivendo un libro a 26 anni, ha schiacciato un interruttore e acceso una luce su un pezzo di Paese. Talmente grande, il pezzo, che forse è tutto. Talmente accecante, la luce, che nessuno può più dire di non vedere.
Mi si siede davanti, troppo vestito per il caldo che fa, e l'indice se lo passa sulla fronte, tanto forte che diventa bianco. Mi sembra stanco o triste. Gli chiedo quale delle due. Mi risponde che è solo un po' pensieroso, che per lui sono giorni strani per via delle inchieste: l'eolico in Sardegna, le infiltrazioni della 'ndrangheta in Lombardia, l'affare Cosentino-Caldoro in Campania.
«Da una parte mi rendono giustizia perché mi dico che allora non sono pazzo - a volte, sa, ho il sospetto di avere una visione deformata del mondo - ; dall'altra mi danno una grande tristezza perché cadono nell'indifferenza colpevole della gente. Escono d'estate, i telegiornali non ne parlano quasi. E invece sono importanti perché, a prescindere da come andranno a finire, mettono in luce un meccanismo culturale: come si assegna un appalto, come si avvicinano i magistrati, come si fanno le inchieste. A un ragazzino direi: leggiti gli atti, capisci come funziona il Paese e decidi».
Che cosa dovrebbe decidere?
«Se rimanere o andarsene. In nessuno dei due casi sbaglia».
Andarsene non è mollare?
«Chi va via salva se stesso. Che decida di tornare, un giorno, oppure no».
Dove abita questo ragazzo?
«Non ha molta importanza, ormai. Quello che sta venendo fuori è che il sistema funziona, con modalità diverse, in tutto il Paese. Il Sud è la ferita aperta attraverso cui tutto si fa passare, e il tessuto apparentemente sano è sano perché lì le mafie investono, ma non sparano. La Lega ci ha sempre detto che certe cose al Nord non esistono, ma l'inchiesta sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in Lombardia racconta una realtà diversa. Dov'era la Lega quando questo succedeva negli ultimi dieci anni laddove ha governato? E perché, adesso non risponde?».
Nicola Cosentino, dicono gli inquirenti, cercava di screditare Stefano Caldoro, suo compagno di partito nel Pdl, costruendo su di lui un dossier che dimostrasse frequentazioni omosessuali. È il sistema della delegittimazione: qualcosa che lei, Saviano, conosce bene.
«Benissimo lo conosco. Il Tribunale di Napoli ha appena condannato, per il reato di plagio, coloro che mi accusavano di aver plagiato. Delle cose che ho raccontato in Gomorra i cronisti locali dicevano: "Cose note, che hai preso in giro, dagli articoli degli altri". Mi hanno fatto causa e hanno perso. Ovviamente il loro scopo non era vincere il processo, ma delegittimarmi: una cosa che in terre di mafia funziona benissimo, perché lì le organizzazioni criminali riescono a gestire il giudizio sulle cose. La delegittimazione è una tecnica precisa e crudele usata su tutti coloro che si oppongono a certi poteri. Basti pensare a Don Peppe Diana, ucciso dalla camorra quando aveva poco più di trent'anni - allora mi sembrava grande, ma adesso che ho la sua stessa età mi rendo conto che era un ragazzo - di cui si riuscì, a lungo, a far credere che fosse camorrista. Di Pippo Fava si disse che era stato ammazzato perché aveva mille donne, alcune anche bambine. La famiglia ci ha messo anni ad arginare questo schifo».
Perché funziona la delegittimazione?
«La maldicenza c'è sempre stata, ma adesso siamo di fronte a una sua nuova forma il cui presupposto è che siamo tutti merda, quindi nessuno ha il diritto di giudicare gli altri. Cosentino in odore di camorra cerca di far passare anche Caldoro per camorrista. Camorrista io, camorrista lui, pari siamo. Ma Caldoro, come dice lui, "è pure ricchione", quindi sono meglio io. Siamo tutti esseri umani, è vero, con le nostre contraddizioni e i nostri interessi. Ma non deve passare il principio per cui tutte le contraddizioni e tutti gli interessi sono uguali. Il problema non è quali scelte fai, ma se quelle scelte ti rendono un uomo ricattabile. E all'elettore spesso piace vedere la gente cadere. La loro caduta giustifica i nostri insuccessi: perché non ho un lavoro decente? Perché non prendo una pensione decorosa? Allora si dà la risposta facile: perché chi ce la fa, chi ottiene le cose, è un raccomandato che non vale niente o è un corrotto».
Lei ha moltissimi fan, ma anche molti detrattori.
«Questione di bile. E un senso di colpa piuttosto diffuso: le storie che ho raccontato stavano sotto gli occhi di tutti. Perché io le ho raccontate e loro no? E poi fastidio, perché ho trent'anni. Chi è visibile a trent'anni? Cantanti e calciatori».
Perché nessuno ha raccontato, prima di lei?
«Non è esatto dire questo. Io devo a molti autori la mia formazione: Francesco Barbagallo, Isaia Sales, Giò Marrazzo. E molti ancora hanno scritto di mafie, ma spesso erano saggi per pochi, pubblicati con case editrici piccole. Io volevo arrivare a tutti, mi impegnai subito in presentazioni, interviste, incontri. Volevo raccontare, parlare, coinvolgere la gente. Il mio successo è la mia dannazione: se avessi venduto anche 20 mila copie (invece di 3 milioni in Italia e 5 nel mondo, ndr), le organizzazioni criminali non si sarebbero accorte di me. Ma si è accesa la luce mediatica e loro si sono sentite aggredite perché qualcosa stava effettivamente cambiando. Basti pensare al processo Spartacus (maxi processo contro il clan dei Casalesi, concluso con 16 ergastoli, ndr): 10 anni per il primo grado, poi si accende la luce mediatica e il secondo grado si chiude in un anno e mezzo. In meno di un anno il terzo».
Il suo libro ha avuto successo anche perché c'è qualcosa di morbosamente affascinante nel mondo che racconta.
«Le dinamiche criminali sono molto affascinanti. Quel fascino non va negato, ma decostruito. Privato del mito di cui si autoalimenta. Le mafie sono ossessionate dal mito: Misso, che è un boss di Napoli, ha tre nipoti che si chiamano Emiliano Zapata, Gesù di Nazareth e Ben Hur. La famiglia La Torre di Mondragone ha la fissazione per il mondo latino: il padre si chiamava Tiberio, il figlio Augusto, quando andavano a fare esecuzioni si organizzavano come la "guardia pretoriana". Pasquale Galasso aveva nella sua villa il trono di Francesco II comprato a Londra, Luigi Vollaro possedeva un Botticelli. Possiamo sorriderne, ma queste mitologie hanno uno scopo: comunicare potere».
Da qualche tempo a questa parte lei è oggetto di sistematici attacchi da sinistra, ai quali, però, non ha mai risposto.
«Li ho sempre considerati bassi, mai degni di una risposta: accusarmi di voler parlare alla destra, come un gesto schifoso, darmi dell'antipolitico non è un argomento che merita parole. La sinistra radicale mi detesta per diversi motivi, soprattutto per avere messo in luce una loro imperdonabile responsabilità: aver sottovalutato la mafia. La sinistra estrema campana ha spesso flirtato con la criminalità, considerandola gente che deve pur sopravvivere, costretta a fare crimine. Con la camorra ci giochicchiano, condividono le piazze, si fanno gli spinelli insieme. Le Brigate Rosse campane hanno addirittura ammazzato per conto della camorra. L'altra cosa che una certa sinistra non mi perdona è che io, quando parlo del governo, mi sforzo di valutare i fatti. E poi non amo le dittature che loro amano: detesto Fidel Castro, il caudillismo autoritario di Chávez, non amo l'Iran, parlo dei gulag, mi piace l'epica, l'onore, che viene erroneamente considerato un valore fascista. Oso dire che esistono, in Italia, uomini di destra per bene, che la legalità è un valore né di destra né di sinistra, ma qualcosa da cui partire insieme. Non sono ideologico e questo non me lo perdonano».
Dica la verità: i colpi da sinistra fanno un po' più male?
«Sono fiero che sia da una parte che dall'altra ci sia chi mi detesta perché è la dimostrazione che parlo trasversalmente. Io rivendico la mia indipendenza, mi permette di vivere senza padroni».
La si accusa di essere dipendente di Berlusconi perché pubblica con la sua casa editrice, la Mondadori.
«È un errore, caso mai Berlusconi è dipendente mio. A parte l'ironia, io scrivo cose mie, che la sua casa editrice decide di pubblicare. Lo scrittore non è come un giornalista dipendente del giornale su cui scrive, di cui deve in qualche modo condividere la linea editoriale. Detto ciò, io resterò in Mondadori e Einaudi fino a quando le condizioni di libertà saranno garantite fino in fondo, anche per non lasciare alla proprietà di decidere i libri e le prospettive culturali di una casa editrice che ha una storia gloriosa. La casa editrice sino a ora è stata di chi ha fatto i libri: editor, ufficio stampa, redattori. È ovvio che dopo l'attacco di Marina Berlusconi per me molto è cambiato. Devo valutare molti fattori: quanto la proprietà incide sulle scelte, quanto permetterà ancora che ci sia libertà e su alcuni libri si possa continuare a puntare. Marina Berlusconi dice che non si dovrebbero più scrivere libri "che danno quest'immagine dell'Italia". Allora, forse, non ha letto Gomorra. In Gomorra racconto storie di resistenza, soprattutto. È se stiamo zitti che diamo una cattiva immagine del Paese. Un giorno mi piacerebbe spiegarglielo che raccontare del potere criminale ha significato dire al mondo che non siamo un Paese di omertosi. E che il miglior apporto che si possa dare a un Paese è quello di non nascondere i propri problemi».
Il suo raccontare ha fatto di lei, per molti, una specie di eroe.
«Io non la voglio questa etichetta, io sono uno scrittore. E tale voglio rimanere. Gli eroi sono morti, io sono vivo».
Non crede che una parte del fascino che la sua figura esercita sia legata alla sensazione di pericolo e di morte che la circonda?
«I ragazzi sono colpiti dal fatto che uno come loro viva come vivo io: nascosto, con cinque uomini di scorta, due di staffetta, due auto blindate. Mi si chiede sempre se ho paura e io sempre dico che non ne ho: mi parlano talmente tanto della mia morte che ormai è come se non mi riguardasse più. È come se ci fosse un'abitudine totale al pensiero della propria morte».
Riesce mai a dimenticarsi del pericolo?
«Mai, perché ho sempre la scorta intorno. Un'altra cosa che non mi lascia mai è il senso di colpa per aver coinvolto la famiglia: è un peso che loro non riescono a bilanciare. Le piazze, gli applausi, sono un compenso, ma solo per me. A loro, invece, tutti gli svantaggi. Mio fratello non posso più incontrarlo in mezzo alla gente perché nessuno sappia che faccia ha, ed è meglio così per tutti, e il fastidio del vociare, quando tornano in Campania: "Ah, la mamma dell'eroe...". Dalle mie parti il messaggio è chiaro: Saviano, non ci rompere i coglioni. Non sei tu che ci devi dire come stanno le cose, noi lo sappiamo, se lo vuoi dire agli altri è per speculare. Sa quanti mi hanno chiesto, sprezzanti: "Quanti ne hai arrestati?". Che c'entra, io non sono un giudice o un poliziotto. Io spiego i meccanismi, e se spieghi alle persone qual è il trucco, il mago non può più rifarlo. Mi dicono: stai schiscio, e fallo in silenzio il tuo mestiere. Ma l'unica che fa bene il suo mestiere in silenzio è la morte».
Il successo di Gomorra non rende necessariamente minore tutto ciò che potrà scrivere dopo?
«Io non ho ancora scritto una seconda opera, ho pubblicato raccolte perché è importante per me ribadire che di mestiere faccio lo scrittore, non il simbolo. È ovvio che un po' d'ansia c'è, ma ho tanto da raccontare. Anche d'altro: non sono un camorrologo».
Ha da poco scritto sul settimanale tedesco Stern che quando vede Gomorra nelle vetrine si gira dall'altra parte.
«È un libro che non rinnego, lo riscriverei, ma sarei falso se le dicessi che lo amo. Perché mi ha tolto tutto: io volevo solo diventare uno scrittore. A centomila copie ero felicissimo, mi pubblicano importanti case editrici straniere e mia madre dice che in quei giorni sembrava che volassi, io non mi ricordo niente. Chiamo mio fratello e gli dico: "Ho i soldi dell'anticipo, compriamoci la moto". La sognavamo da tanto tempo una moto. Poi arrivano la scorta, le minacce. Io volevo essere quello di prima. Mi è scoppiato tutto in mano».
Com'è la vita, adesso?
«In continuo movimento. In questi quattro anni ho vissuto nelle caserme, negli appartamenti sempre per poco, perché la gente non mi vuole. Non perché hanno paura di saltare per aria insieme a me come dicono, ma in verità perché con me ci sono i carabinieri e nei palazzi c'è sempre il dentista che non fa la ricevuta o l'inquilino che paga in nero».
Cos'è casa per lei?
«Le mie due borse: in una ho i vestiti, nell'altra i libri. Poi il computer e le persone a cui voglio bene. Non c'è più un luogo fisico, casa per me è uno stato sempre più metafisico…».
Che cosa fa quando non lavora?
«Palestra e boxe. La boxe mi ha salvato in molti momenti. Sono stato fortunato perché mi ha allenato per un po' Mimmo Brillantino, forse il più grande allenatore di boxe olimpionica d'Europa. Abbracciava il sacco su cui tiravo e mi diceva: "Lo senti?". E io: "Cosa?". Lui: "Metti l'orecchio sul sacco, lo senti che piange? Hai tirato da schifo e piange". La boxe è stare allo specchio ore e ore a provare i colpi. Dopo un po' non vedi più te stesso, ma uno che ti assomiglia. E cominci a correggerti davvero solo in quel momento. Meglio di una seduta psicoanalitica, serve anche nella vita».
Riesce a fidarsi ancora di qualcuno?
«Me l'ha chiesto anche Joe Pistone - meglio conosciuto come l'agente Donnie Brasco - subito dopo avermi detto che, per essere un italiano, mi vesto veramente male. Rispondo a lei quello che dissi a lui e che è la verità: non mi fido di nessuno. Mi affido, per momenti più o meno lunghi, alle persone che mi vogliono bene, che si prendono cura di me. Ma non mi fido più di nessuno».
Dove lo fa lei l'amore?
«Domanda imbarazzante! La mia vita sentimentale si organizza tutta nelle stanze chiuse, nascosto. Se io esco con qualcuno lo espongo: alla curiosità e alla protezione necessaria della scorta. Quello che mi manca di più è poter stare per strada: incontrarsi, passeggiare, mangiare. Mi manca il caso: andare a una festa, incontrare qualcuno. Sogno una passeggiata mano nella mano, un giro in Vespa, una frittura di pesce a Pozzuoli. Ti accorgi delle cose che contano solo quando non le puoi più avere. Io per anni non ho festeggiato i miei compleanni. Ma da quando sono blindato rimpiango tutti i compleanni mai festeggiati».
Salman Rushdie le ha detto: «Vai via, salvati».
«Mi ha detto che sono due le cose che mi salverebbero: "Party and girl". Io per ora sto provando a costruirmi una vita normale, e soprattutto tre cose: vivere vivere vivere».
Fonte: Style.it---Se hai trovato interessante l'articolo iscriviti ai feed via mail per rimanere sempre aggiornato sui nuovi contenuti del blog
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