Avendoci messo le mani giureconsulti del calibro di Schifani, Alfano e Ghedini, era naturale che la legge sulle intercettazioni fosse una boiata. C’è semmai da dubitare della sanità mentale di chi s’illudeva di migliorarla con qualche “emendamento condiviso” qua e là. Chissà che si aspettavano i vertici dell’Anm e i fresconi del Pd dall’intervento del presidente del Senato, quello che quando non faceva l’autista del senatore La Loggia prestava consulenze legali a noti mafiosi. Il risultato è che la boiata resta una boiata, a parte un ritocchino che cancella i “gravi indizi di colpevolezza” come condicio sine qua non per intercettare, ripristinando gli attuali “gravi indizi di reato”. Dopo lunghe spiegazioni, con l’ausilio di qualche disegnino, berlusconidi e schifanidi hanno finalmente capito che le intercettazioni servono a scoprire i colpevoli e consentirle soltanto dopo averli scoperti significa non scoprirli più.
Per il resto, tutto come prima. Con l’aggiunta di un paio di novità da perizia psichiatrica. La prima: se intercetta un criminale che parla con un parlamentare (la qual cosa accade con grande frequenza), il pm deve bloccare tutto e chiedere l’autorizzazione del Parlamento a proseguire. Esempio: il delinquente Gigi parla con l’onorevole Pippo, ma non lo chiama onorevole: lo chiama solo Pippo. Passano mesi prima che gl’interlocutori di Gigi vengano identificati e si scopra così che Pippo è un onorevole. Nel qual caso la nuova norma è inutile. Poniamo invece che si capisca subito che Pippo è un onorevole: il pm dovrà avvertire il Parlamento, cioè Pippo, che sta intercettando il suo amico Gigi, così Pippo potrà avvisare Gigi di non chiamarlo più, o di cambiare telefono, o di usare i pizzini. Così l’inchiesta va in fumo. Stessa regola per acquisire i tabulati del parlamentare che parla con l’indagato intercettato. Ma di solito è proprio per sapere a chi è intestata una certa utenza che si acquisisce il tabulato: d’ora in poi per acquisirlo bisognerà già sapere che è di un parlamentare e chiedere il permesso al Parlamento.
E’ il comma 22. Seconda novità: il privato cittadino che – come la D’Addario con Berlusconi – registra o filma proprie conversazioni con qualcuno rischia da 6 mesi a 4 anni di galera, a meno che non emerga una notizia di reato e venga tempestivamente denunciata. Ma la stessa cosa non può farla un magistrato: vietato piazzare cimici nell’auto o nella casa del mafioso o dello stupratore (ma anche telecamere allo stadio per prevenire eventuali atti di violenza), a meno che non si abbia la certezza che in quel luogo si sta commettendo un delitto. E, siccome la certezza non c’è mai, le cimici e le telecamere non si piazzeranno mai più. Non è meraviglioso? Intatte anche le follie dei 60 giorni di durata massima delle intercettazioni (poi, fosse anche la vigilia di un omicidio, si stacca tutto) e del divieto di usare intercettazioni in un’inchiesta diversa da quella per cui sono state disposte (intercetto uno per furto di bestiame e scopro che sta per ammazzare la moglie? Il nastro non è più utilizzabile per incastrarlo per uxoricidio). Poi naturalmente c’è il bavaglio alla stampa. Secondo indiscrezioni trapelate dal Quirinale, a Napolitano va bene così. Il giornalista che pubblica un atto d’indagine rischia 2 mesi di galera più 10 mila euro di multa (20 mila se è un’intercettazione pubblicata o raccontata o riassunta) più la sospensione dalla professione; e il suo editore fino a 500 mila euro ad articolo.
Ma qui la boiata è talmente incostituzionale e contraria alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che la Consulta e/o la Corte di Strasburgo faranno presto giustizia. Cose che capitano in un paese dove il premier pensa che “in Italia da circa 15 anni c’è un golpe bianco tinto di rosso attuato da alcuni magistrati con pezzi della politica”. Anzi no, mi dicono che la frase (vedi blog www.ipezzimancanti di Salvo Palazzolo) è di Matteo Messina Denaro. Ragazzo sveglio. Farà strada.
Fonte: Fatto Quotidiano del 21 aprile in edicola
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