«Sono discorsi che non meritano neppure un commento».
Ma lei che cosa avrebbe fatto per risolvere il caos delle liste? Si sarebbe opposto alla sanatoria «interpretativa»?
«Rispondo girandole a mia volta una domanda: quanti sono gli elettori del Pdl in Lazio e Lombardia? Qualche milione, no? Ora mi spieghi che cosa sarebbe successo se si fosse votato senza la lista del partito di maggioranza. Sarebbe stato eletto un organismo che non avrebbe rappresentato la realtà e che, nonostante ciò, avrebbe dovuto amministrare le due regioni senza rispecchiare davvero la società. Esponendosi per cinque anni ad agitazioni, turbative, rifiuti d’obbedienza e quant’altro. Una follia».
Chi contesta il provvedimento adottato (e oltre al cosiddetto «popolo viola» c’è pure il responsabile per gli affari giuridici della Conferenza episcopale, il vescovo Mogavero), parla di «funerali del diritto».
«Qui bisogna intendersi e andare oltre le rigide norme e i regolamenti. Il cui esatto adempimento è, sì, importante, ma stavolta si scontrava con un tema fondamentale: assicurare la partecipazione al voto del numero più alto possibile di cittadini».
Come si poteva uscirne, senza lesionare questo schema binario?
«Ripeto: le norme sono certo intoccabili e richiedono un rispetto assoluto. Tuttavia la politica doveva trovare il modo di impedire che una gran massa di elettori restasse esclusa. In un regime democratico questa è la priorità assoluta, un elemento da tutelare».
Serviva insomma l’invocata «soluzione politica». Che però nessuno sembrava davvero concretamente perseguire.
«La collaborazione tra maggioranza e opposizione in un caso del genere sarebbe obbligatoria. Un accordo lo si doveva trovare a ogni costo. E forse sarebbe stato possibile costruire una sorta di "cerotto legislativo" se le forze di governo avessero riconosciuto di aver sbagliato, per grane e dissidi loro interni, piuttosto che parlare di formalismi inutili e attaccare tutti indistintamente. Dimostrando totale assenza di senso dello Stato».
Il clima in cui è nato il decreto—legge evocava minacce, più o meno velate, di ricorso alla piazza. Per qualcuno si sarebbe addirittura sfiorata la sommossa...
«È risibile l’argomento di chi sostiene che il presidente della Repubblica ha ratificato il provvedimento per impedire la violenza. Sarebbe la stessa ragione che ha sempre usato Vittorio Emanuele III davanti a Mussolini. Infatti, nessuna Costituzione conferisce ai capi dello Stato un’autorizzazione al cedimento».
Quel decreto, comunque, la soddisfa?
«Certamente no. Era forse preferibile il rinvio del voto di qualche settimana. Magari di un mese. Ciò che avrebbe richiesto l’intesa di cui parlavo prima, in assenza della quale è tutto il Paese a pagare le conseguenze in termini di nuove tensioni. Riconosco poi che qualsiasi soluzione legislativa sarebbe stata stiracchiata, faticosa, una distorsione e una forzatura».
Che cosa pensa delle minacce di impeachment rivolte da una parte dell’opposizione più radicale a Napolitano?
«Sfogare le proprie delusioni in questo modo è inutile. È sbagliato il bersaglio. Occorre fare cose che abbiano un significato. Ad esempio una manifestazione che richiami e riaffermi i princìpi fondamentali è sempre giusta, anche se non dà alcun apporto a una realtà non facilmente modificabile, ma della quale servirà tenere conto in futuro».
E l’atteggiamento di Silvio Berlusconi in tutta questa partita, come lo giudica?
«Trovo deprecabile che una persona giunta al vertice della responsabilità rivendichi di continuo un improprio diritto ad avere le mani libere, ponendosi sopra tutto e tutti, con la motivazione che lui sarebbe "nominato direttamente dal popolo". Una cosa che non sta scritta da nessuna parte nella nostra Costituzione».
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