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Reggio, scarcerati per errore tre boss di 'ndrangheta


REGGIO CALABRIA - Ci sarebbe un mero errore materiale alla base dell'equivoco sulla scarcerazione di tre presunti esponenti della cosca Cordì di Locri. Un errore di trascrizione, mal interpretato dal Tribunale della libertà di Reggio Calabria, che ha letto in maniera restrittiva un'ordinanza di custodia cautelare del Gip che, dal canto suo, aveva "correttamente valutato le richieste dei pm". Un pasticcio che ieri ha fatto temere che alcuni boss mafiosi fossero riusciti a sfuggire alle maglie del carcere per negligenza della magistratura. La storia ha inizio a settembre scorso, quando scatta l'operazione Shark della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Nel mirino degli inquirenti (Antonino Di Bernardo e Marco Colamonaci) una quindicina di persone accusate di usura, estorsione e altri reati. Scattano gli arresti, e nelle ordinanze di custodia cautelare firmate dal Gip Carlo Alberto Indellicati, accanto ai nomi di Domenico Cordì, Cosimo Ruggia e Domenico Panetta, restano scritti per errore i richiami all'aggravante mafiosa.

Lo stesso Gip tuttavia spiega ampiamente nelle motivazioni dello stesso provvedimento d'arresto che "non ci sono gli estremi per contestare tra i reati oggetto dell'inchiesta quello di aver agito con modalità tipiche dei clan". Insomma se pure alcuni degli indagati potrebbero essere colpevoli di varie nefandezze, non ci sono le prove che, almeno in questo caso, si tratti di mafiosi.

Così passati i sei mesi della custodia cautelare Eugenio Minniti, legale di Cordì, chiede al Tribunale della libertà la scarcerazione del proprio assistito. I giudici tuttavia rispondono picche, interpretando in maniera restrittiva il parere del Gip Indellicati. Alla luce di tale decisione e delle relative motivazioni, l'avvocato Minniti si rivolge alla Cassazione che in breve tempo gli dà ragione. Da qui la scelta di formulare una nuova istanza al Gip competente che nel frattempo era diventato il dottor Santo Melidona (Indellicati dopo il terremoto è stato distaccato in Abruzzo nel pool di magistrati che controllano gli appalti della ricostruzione), il quale leggendo le carte dà a sua volta soddisfazione al difensore di Cordì e rimette in libertà i tre. In buona sostanza, non essendo contestata l'aggravante mafiosa e non essendo ancora stata chiusa l'indagine, i termini della custodia cautelare preventiva sono sei e non dodici (tanti sono previsti per i mafiosi).

A destare allarme la personalità dei personaggi che hanno riguadagnato, almeno per il momento, la libertà. Domenico Cordì, infatti, è il figlio di Cosimo Cordì, ucciso nel 1997 in un agguato nell'ambito della faida contro il clan Cataldo. Ruggia, secondo le risultanze investigative, è uno degli affiliati della cosca Cordì, mentre di Domenico Panetta si è parlato nel processo per l'omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno, ucciso a Locri nel 2005. Insomma, noti ben noti alle forze dell'ordine, e per questo tenuti particolarmente sotto attenzione. Su quello che appare un malinteso è intervenuto direttamente il Gip Carlo Indellicati che ha spiegato come non ci sia stato alcun errore. "All'epoca dei fatti - spiega - rispetto ai reati oggetto dell'indagine avevo contestato il favoreggiamento semplice senza l'aggravante del metodo mafioso poiché, a mio parere, non sussistevano i gravi indizi di colpevolezza. Ecco perché i termini della loro custodia cautelare si sono ridotti da un anno a sei mesi".

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