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Uranio impoverito, le voci delle vittime

È una delle inchieste più scomode degli ultimi anni. Scomode perché ci sono di mezzo lo Stato, la Nato, le forze armate e centinaia di militari italiani morti per una strana sindrome, il linfoma di Hodgkin.

All’origine di tutto questo ci sarebbe una sostanza chimica chiamata “uranio impoverito”, prodotta dalla fissione nucleare e utilizzata in ambito militare, sulla quale si sono affaccendati e si affaccendano ancora scienziati, studiosi, capi di stato maggiore, marescialli e commissioni parlamentari d’inchiesta (ben due, nel 2004 e 2006) per capire e dimostrare quanto l’esposizione a questa sostanza sia la causa principale delle malattie incurabili che militari e civili hanno contratto nei luoghi in cui è stato accertato il suo impiego: Iraq, Bosnia, Kosovo, Somalia e anche il poligono interforze di Salto di Quirra, in Sardegna.

Il punto è che, rispetto a questa questione, si sono affaccendati poco i giornalisti, sia per la difficoltà di procedere fino in fondo con il metodo investigativo, sia perché la materia brucia sulla pelle di molti militari, la maggior parte dei quali già morti. Leonardo Brogioni, Angelo Miotto, Matteo Scanni, tre giornalisti giovani e indipendenti, invece, hanno realizzato L’Italia chiamò (Edizioni Ambiente, pagine 160, euro 16,90; con dvd di 60 minuti), un’inchiesta multimediale, comprensiva di tutti i linguaggi (video, fotografia, audio, scrittura) e, per risalire alla causa, sono partiti dall’effetto: hanno scelto di raccogliere le denunce dei soldati italiani colpiti dalla malattia e di ripercorrere a ritroso le loro vite e la loro attività, incrociando le valutazioni di medici e biologi sulle cartelle cliniche dei pazienti con i dati scientifici internazionali sui rischi da uranio impoverito e con i risultati dei test militari effettuati dagli americani.

Il succo della questione – come bene rimarca la prefazione di Maurizio Torrealta, giornalista di Rainews24 – è sdoganare l’espressione “impoverito” per un tipo di uranio che sarebbe lo scarto del procedimento di arricchimento e che, se esploso, libererebbe comunque radioattività in forma di nanoparticelle. Una radioattività così pericolosa da non rendere ragione del termine con cui lo si definisce, se un memorandum segreto del dipartimento della Guerra degli Usa, datato 1943, poi reso noto negli anni Settanta, suggeriva l’uso di armi all’uranio impoverito <>. Il 28 marzo 1997 negli Stati Uniti viene pubblicato il rapporto Depleted Uranium che rende conto degli effetti delle armi “non convenzionali” sui veterani nella Guerra del Golfo. Ma nessuna notizia se ne ha in Italia e nulla ne sanno i nostri militari.

Fino a che l’elicotterista Domenico Leggiero diventa il rappresentante dell’Osservatorio militare e pubblica per primo dati scomodi per i vertici delle forze armate, numeri che snocciola anche L’Italia chiamò: soldati morti per linfomi riconducibili alla presenza di nanoparticelle nell’organismo: tra 80 e 170.

Soldati ammalati: tra 300 e 2540. da questa inchiesta, poi, le stime e le relazioni di causa-effetto tra le omissione dell’Esercito italiano e le confessioni dei nostri militari malati, ogni lettore potrà trarle da sé, perdendosi nella profondità degli occhi di Angelo Ciaccio, il caporalmaggiore di Napoli affetto da leucemia gravissima, una causa di servizio già presentata al ministero della Difesa; o ammirando la dolorosa dignità del padre di Luca Sepe, soldato dell’esercito, morto senza diagnosi certa (si scoprirà poi trattarsi di linfoma di Hodgkin) dopo cento giorni in Kosovo, maneggiando materiali contaminati senza protezioni; o ancora leggendo le speranze possibili nel sorriso sereno di Emerico Laccetti, comandante del Centro emergenza della Croce rossa italiana, sopravvissuto a un tumore mortale, dopo avere dormito in un campo vicino a Tirana, contaminato da bombardamenti americani.

Tutti orgogliosi di essere soldati al servizio della patria, tutti indignati per non essere mai stati informati dai loro superiori sulle conseguenze gravissime a cui erano esposti. L’Italia chiamò dimostra con i fatti di non essere un’inchiesta a tesi, come qualcuno potrebbe pensare: piuttosto, aiuta a sollevare il velo giusto su tutte quelle guerre che diciamo giuste

Fonte: Avvenire.it

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