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Morto il poliziotto che ha combattuto le ecomafie Ucciso dai veleni che ha respirato

LA guerra di Roberto Mancini è finita. È morto a 53 anni dopo una battaglia lunga 12 anni. Lascia una moglie e una figlia. Ha combattuto fino alla fine, “come un leone”, dicono gli amici, ma non ce l’ha fatta. Il poliziotto che con le sue indagini ha anticipato di 15 anni ciò che poi è stato il disastro della Terra dei Fuochi è morto questa mattina all’ospedale di Perugia. Lo ha ucciso un linfoma non-Hodgkin, un cancro al sangue, conseguenza dei veleni respirati durante anni di lavoro tra rifiuti tossici e radioattivi. "Se qualcuno avesse preso in considerazione la mia indagine – raccontava a Re Le inchieste – forse non ci sarebbe stata Gomorra. Da 11 anni lotto contro il cancro e ho fatto causa alla Camera dei Deputati dopo aver ricevuto un indennizzo di soli 5mila euro".

Roberto Mancini era sostituto commissario di Polizia a Roma. È morto all’ospedale di Perugia a causa di un’infezione polmonare, complicanza di un trapianto di midollo osseo, unica cura per combattere la sua leucemia.

Nei primi anni ’90 inizia a lavorare sul traffico illecito di rifiuti in Campania. Nel 1996, dieci anni prima dell’uscita del libro “Gomorra” di Roberto Saviano, consegna un’informativa alla Procura di Napoli che verrà presa in considerazione soltanto nel 2011. Le carte consegnate da Mancini svelavano nel dettaglio attraverso intercettazioni, pedinamenti, dichiarazioni di pentiti, i nomi delle aziende del Nord coinvolte nel traffico: come l’Indesit e la Q8. Descrivevano i rapporti tra camorra, massoneria e politica. Anticipavano quel sistema che ha portato al biocidio della Terra dei fuochi.

L’informativa rimane in un cassetto per 15 anni. Fin quando nel 2011 il pubblico ministero Alessandro Milita la trova e la mette agli atti del processo per disastro ambientale e inquinamento delle falde acquifere. Tra gli imputati anche Cipriano Chianese, broker dei rifiuti del clan dei casalesi, che gestiva tutto il sistema criminale.

Negli anni successivi alle indagini, tra 1997 e il 2001, Mancini lavora come consulente per la Commissione rifiuti della Camera dei deputati. Il presidente è Massimo Scalia. Esegue decine d’ispezioni e sopralluoghi in discariche di rifiuti tossici nocivi e in siti di stoccaggio di materiali radioattivi. È proprio in questo periodo che Mancini si ammala di Linfoma non-Hodgkin.

La diagnosi arriva nel 2002. Il ministero degli Interni certifica il suo cancro del sangue come “causa di servizio” e gli riconosce un indennizzo di 5000 euro. A Roberto Mancini non bastano: “È un’ingiustizia”, dice. Così inizia la sua guerra contro lo Stato. Nel luglio 2013 la Camera gli nega un ulteriore indennizzo. La battaglia continua. Il 6 Aprile 2014 vengono consegnate a Montecitorio oltre 20mila firme in calce a un appello che chiede che a Mancini sia riconosciuto il giusto risarcimento. La Camera promette l’apertura di un’istruttoria. A oggi la petizione di change.org è stata sottoscritta da più di 50mila persone.

È proprio da sito di change.org che la moglie Monika si appella allo Stato: “Spero che le sofferenze che Roberto ha dovuto sopportare per aver servito lo Stato contro le ecomafie in Campania non cadano nell'indifferenza delle istituzioni e dell'opinione pubblica e mi auguro che il suo ricordo possa servire da esempio per tutti coloro che non vogliono arrendersi a chi vuole avvelenare le nostre terre, le nostre vite''.
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