BERLINO — Perché il nuoto italiano vince quattro medaglie al Mondiale (tre ori e un bronzo) e l’atletica oggi chiuderà l’edizione di Berlino senza podi?
La prima risposta è la più semplice: perché il nuoto ha due fuoriclasse (Pellegrini e Filippi) e l’atletica ha uno dei suoi uomini di punta (Howe) infortunato da 20 mesi (deve essere operato al tendine, ma non si sa né quando né dove) e l’altro, Schwazer, non ha ripetuto Pechino nella 50 km di marcia. E qui si potrebbe introdurre la prima domanda: perché la Fidal fatica a gestire i suoi elementi migliori, ricordando l’effetto trainante dei campioni da stadio, come accadeva ai tempi di Mennea, Simeoni, Cova, Panetta e Mei?
Chi difende l’atletica osserva che i nuotatori italiani a Roma 2009 non hanno portato medaglie e che, in assoluto, a parte le due azzurre d’oro, il bilancio finale è stato meno brillante del previsto. Oppure che in un Mondiale di atletica esiste una concorrenza che il nuoto può soltanto sognarsi (l’Africa, i Caraibi, i neri d’America e di Giamaica, 34 Paesi presenti nel medagliere). E ancora: in atletica convivono specialità che in realtà dovrebbero essere considerati sport differenti: difficile trovare un rapporto fra un martellista e un maratoneta, mentre fra un ranista e uno stileliberista una colleganza esiste comunque.
Il punto centrale però è un altro: il nuoto azzurro dà l’immagine di un movimento che, trascinato ora da Pellegrini e Filippi, vince da anni, funziona, al di là delle medaglie (e delle tensioni federali con il Coni), dove ci sono personaggi, entusiasmo, una solida base, voglia di fare, di crescere e di migliorarsi. L’atletica italiana sta vivendo uno dei suoi momenti più tormentati, anche se, chi ne conosce la storia, sa bene come la ricchezza di campioni non sia mai stata una caratteristica del movimento, tant’è che nelle precedenti edizioni mondiali si sono vinte solo undici medaglie d’oro.
La prima differenza fra il nuoto è l’atletica è a scuola: andare in piscina è considerato utile alla salute, prima ancora che propedeutico all’avviamento allo sport; l’atletica è giudicata invece un valore aggiunto, sempreché rimanga un po’ di tempo per farla. Eppure non è il reclutamento il problema più grosso della Fidal: fra i cadetti (14-15 anni) si fa anche troppa attività e fra gli allievi (16-17) la base continua ad essere numericamente rilevante. La vera dispersione di talenti avviene nella categoria juniores (dai 18 anni).
Un esempio: nell’84, a correre i 5.000 in meno di 15’ erano in 54; nel 2008 ce l’hanno fatta soltanto in otto. Ma la situazione peggiora sensibilmente nel triennio fra i 19 e i 21 anni, quando un atleta va costruito per l’esplosione finale e viene a mancare quello che dovrebbe essere indispensabile: la qualità dell’allenamento. L’immagine che esce da Berlino, al di là della mancanza di medaglie, è quella di un’atletica italiana che cammina (a Pechino almeno marciava), mentre gran parte del mondo prova a correre.
Quella che manca è una visione complessiva del movimento: ognuno pensa alla propria parrocchia, con le società civili ormai in via di estinzione, a favore dei club militari. Chi nuota paga una quota; chi fa atletica no; così i club sono costretti ad autofinanziarsi, finché spariscono o chiudono per scelta. La massima preoccupazione degli atleti sembra essere quella di fare qualche risultato, non importa dove, per toccare quota 950 punti a stagione (in base alle tabelle federali), per entrare in un club militare e avere così un discreto stipendio mensile. In un quadro di generale dispersione e di scarso controllo degli atleti, i tecnici di società sono quasi tutti pagati poco e male. Così alla prima occasione si dedicano ad altro (è più remunerativo e gratificante fare il preparatore in C2), anche perché d’inverno non si sa dove allenarsi, a parte chi si dedica alle campestri.
L’atletica italiana ha bisogno di una scossa e di un presidente come Arese, con un grande passato da atleta e molto stimato dal Coni, che alzi la voce e non perdoni più chi sbaglia. Ma è inutile parlare di massimi sistemi se in inverno, a Milano, un tempo la capitale del movimento, ci si è allenati per tre mesi sulla neve, perché non esiste un impianto coperto, mentre nuotare al caldo in piscina è molto meno complicato. E anche più divertente. Per tutti.
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La prima risposta è la più semplice: perché il nuoto ha due fuoriclasse (Pellegrini e Filippi) e l’atletica ha uno dei suoi uomini di punta (Howe) infortunato da 20 mesi (deve essere operato al tendine, ma non si sa né quando né dove) e l’altro, Schwazer, non ha ripetuto Pechino nella 50 km di marcia. E qui si potrebbe introdurre la prima domanda: perché la Fidal fatica a gestire i suoi elementi migliori, ricordando l’effetto trainante dei campioni da stadio, come accadeva ai tempi di Mennea, Simeoni, Cova, Panetta e Mei?
Chi difende l’atletica osserva che i nuotatori italiani a Roma 2009 non hanno portato medaglie e che, in assoluto, a parte le due azzurre d’oro, il bilancio finale è stato meno brillante del previsto. Oppure che in un Mondiale di atletica esiste una concorrenza che il nuoto può soltanto sognarsi (l’Africa, i Caraibi, i neri d’America e di Giamaica, 34 Paesi presenti nel medagliere). E ancora: in atletica convivono specialità che in realtà dovrebbero essere considerati sport differenti: difficile trovare un rapporto fra un martellista e un maratoneta, mentre fra un ranista e uno stileliberista una colleganza esiste comunque.
Il punto centrale però è un altro: il nuoto azzurro dà l’immagine di un movimento che, trascinato ora da Pellegrini e Filippi, vince da anni, funziona, al di là delle medaglie (e delle tensioni federali con il Coni), dove ci sono personaggi, entusiasmo, una solida base, voglia di fare, di crescere e di migliorarsi. L’atletica italiana sta vivendo uno dei suoi momenti più tormentati, anche se, chi ne conosce la storia, sa bene come la ricchezza di campioni non sia mai stata una caratteristica del movimento, tant’è che nelle precedenti edizioni mondiali si sono vinte solo undici medaglie d’oro.
La prima differenza fra il nuoto è l’atletica è a scuola: andare in piscina è considerato utile alla salute, prima ancora che propedeutico all’avviamento allo sport; l’atletica è giudicata invece un valore aggiunto, sempreché rimanga un po’ di tempo per farla. Eppure non è il reclutamento il problema più grosso della Fidal: fra i cadetti (14-15 anni) si fa anche troppa attività e fra gli allievi (16-17) la base continua ad essere numericamente rilevante. La vera dispersione di talenti avviene nella categoria juniores (dai 18 anni).
Un esempio: nell’84, a correre i 5.000 in meno di 15’ erano in 54; nel 2008 ce l’hanno fatta soltanto in otto. Ma la situazione peggiora sensibilmente nel triennio fra i 19 e i 21 anni, quando un atleta va costruito per l’esplosione finale e viene a mancare quello che dovrebbe essere indispensabile: la qualità dell’allenamento. L’immagine che esce da Berlino, al di là della mancanza di medaglie, è quella di un’atletica italiana che cammina (a Pechino almeno marciava), mentre gran parte del mondo prova a correre.
Quella che manca è una visione complessiva del movimento: ognuno pensa alla propria parrocchia, con le società civili ormai in via di estinzione, a favore dei club militari. Chi nuota paga una quota; chi fa atletica no; così i club sono costretti ad autofinanziarsi, finché spariscono o chiudono per scelta. La massima preoccupazione degli atleti sembra essere quella di fare qualche risultato, non importa dove, per toccare quota 950 punti a stagione (in base alle tabelle federali), per entrare in un club militare e avere così un discreto stipendio mensile. In un quadro di generale dispersione e di scarso controllo degli atleti, i tecnici di società sono quasi tutti pagati poco e male. Così alla prima occasione si dedicano ad altro (è più remunerativo e gratificante fare il preparatore in C2), anche perché d’inverno non si sa dove allenarsi, a parte chi si dedica alle campestri.
L’atletica italiana ha bisogno di una scossa e di un presidente come Arese, con un grande passato da atleta e molto stimato dal Coni, che alzi la voce e non perdoni più chi sbaglia. Ma è inutile parlare di massimi sistemi se in inverno, a Milano, un tempo la capitale del movimento, ci si è allenati per tre mesi sulla neve, perché non esiste un impianto coperto, mentre nuotare al caldo in piscina è molto meno complicato. E anche più divertente. Per tutti.
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